Il progetto esposto al Campo del Ghetto Nuovo (Ghetto Et Cetera Art Gallery) è nato dall’idea di Donatella Chiara Bedello che voleva celebrare il “compleanno” di Venezia con una mostra che unisse due artisti che Venezia la hanno rappresentata, seppure all’apparenza oggettivamente, nella maniera più intima possibile: parliamo della pittrice Lucia Sarto e del fotografo Federico Povoleri. Gli scorci e i momenti scelti dagli artisti raccontano, difatti, una Venezia intima e personale. Si sceglie per questo racconto un sistema profondo: l’accostamento tra pittura e fotografia. Se è vero che è relativamente recente l’idea di collaborazione tra queste due arti, (quando non c’era la fotografia c’era la pittura e alla nascita della fotografia la pittura ha sentito un cambiamento), è vero anche che il loro accostamento ci permette di cogliere ogni aspetto (materiale e non) del luogo rappresentato. Paradossalmente le opere di Lucia Sarto sembrano fotografie, e le fotografie di Povoleri quadri: i dipinti a colori della pittrice, così realistici che sembrano invitarci a fare un passo per immergerci dentro, sono esposti accanto alle fotografie in bianco e nero, che paiono senza spazio e tempo, immagini che vogliono comunicarci una idea piuttosto che mostrarci luoghi o persone oggettivamente.
Ma come può qualcosa di apparentemente oggettivo (come i quadri e le foto in questione) andare oltre la materialità, non solo dei luoghi, ma anche delle persone? Van Gohg si lamentava col fratello Theo delle critiche voltegli dagli accademici: per loro le sue rappresentazioni erano inesatte, per lui una fotografia era inesatta: la fotografia non avrebbe colto ciò che significava una azione per la persona in quel momento, l’avrebbe snaturata, sarebbe stata costruzione artificiale. “Se si fotografasse uno zappatore, quello di sicuro non starebbe zappando” diceva. Tuttavia nelle sue rappresentazioni fotografiche, Povoleri si comporta come un pittore: conscio di questo, cerca di cogliere il significato dell’azione per chi la compie in quel momento (alla base per l’antropologo Geertz della descrizione “densa”). Noi non sappiamo a cosa pensassero i due “Uomini al lavoro” nel momento dello scatto, o l’uomo sul ponte nell’opera sopra citata, ma li vediamo colti nelle loro azioni in maniera così profonda, che siamo invitati a immedesimarci in loro e a chiederci il perché di quello che stanno facendo. Sono fotografie, è vero, ma quegli uomini stanno veramente lavorando, e la figura solitaria sta veramente avanzando nella nebbia con le sue motivazioni che sono ugualmente riprese dalla fotocamera. Allo stesso modo la bambina ritratta dalla pittrice è davvero presente davanti allo spettatore con la sua storia e i suoi pensieri. Pensieri che sembra invitarci, dolcemente, ad ascoltare.