Il titolo di oraziana memoria, a sua volta erede del πάντα ῥεῖ eracliteo, nelle liriche della poetessa Rotter assume nei colori delle stagioni la sua percezione più incisiva: la neve invernale, i candidi e lievi fiocchi, divenuti «manto» con il loro peso spezzano «quel ramo vecchio» e l’evento è rimarcato dalla similitudine «come accade a un cuore/oppresso da un fardello di dolore».
Le voci dell’autunno si odono nel «vento» personificato, «che spettina i capelli», nei «mulinelli di foglie gialle / verdi fino a ieri», nella «nebbiosa coltre» che tutto ricopre.
Il male di vivere montaliano nella “foglia accartocciata” diviene compartecipe dolore della poetessa nel «feroce ghigno», nelle «armi brandite per straziare» le donne che «non sono erbacce da strappare via».
La morte, «discreta come amica», la sente al fianco e deve poter prendere per mano e dire: «adesso andiamo», a quella soglia senza aver paura.
Nella lirica Ricchezze, al ricco di turno la poetessa fa notare: «non puoi comprarti un alito di vita / quando il tuo tempo sarà terminato».
Il ciclo della vita e della morte ben si staglia in quello che può a primo acchito far pensare a una filastrocca con le soppesate rime, una «melina» si chiede perché è nata, dal vecchio e saggio tronco ha una risposta: nessuno nasce invano. Nell’inverno diviene «cibo a un uccellino /… al suolo, lo fu di un topolino /…. e sotto foglie morte / si mise per dormire ad aiutare il melo / a marzo a rifiorire».
In Temporale notturno la metafora sinestetica di memoria pascoliana “un gran pianto” diviene «un gran pianto di ciliegie rosse» dopo la burrasca: la morte è nelle cose e il colore rosso rimanda non solo alla maturità del frutto, ma alla sua vulnerabilità, quella stessa che è nel tormento prima della caduta della maggior parte delle foglie d’autunno. La rotacizzazione rende più crudo e sonoro il quadro: scarruffato, burrasca, torceva i rami…spezzava qualche frasca.
A rendere più acuto il dolore delle assenze in Casa di ombre, «risuona il piede / dentro il vuoto!».
Il passato e il presente si specchiano, l’infanzia passata velocemente è resa con due similitudini: «come un alito di vento / come una scia di barca che si chiude». Così una promessa di ritorno è associata al Fiore di spino, che diviene «veleno amaro nel suoprofumo lieve». La rivisitazione dei luoghi del cuore offre uno spettacolo deludente del grande oleandro, anch’esso connotato dal profumo amaro: «il pozzo è abbandonato, / tu disseccato e morto / e tutt’intorno è pieno / solo di solitudine e sconforto». Ciò che è stato non ha più vigore, è soggetto alla legge della trasformazione, della solitudine palpabile. Così nel cassetto dei ricordi lettere d’amore che vanno in cenere, lasciano solo «una favilla»che ancora scotta nel cuore e la vita è resa pienamente con la metafora del viaggio: «quando hai ben appreso le leggi del volante, / la macchina si ferma», per il viandante «dalle molte speranze inavverate». Lo scoramento per un mondo privo di umanità, ricco di solitudini, di compiti e ruoli demandati si legge nel non voler vedere dei vecchi, utili una volta, ora soppiantati da nonna tv. Si è reciso anche il filo di lana della nonna, il «filo della memoria», sì che la vita vissuta è paragonata ad una «vecchia barca sulla spiaggia» e Villa Regina, ritrovo di «ex della vita» abbandona ogni passato nelle mani giovanili stipendiate. Con i suoi colori variabili per stagioni, rapiti alle cose accarezzate, il vento, simbolo più consono del «tempus fugit», ci lascia con il colore dei crisantemi, il colore del perpetuo autunno della vita.
recensione di Luisa Martiniello