Ne Il Sol dell’Avvenire scorrono contemporaneamente tre storie, tra loro indissolubilmente intrecciate.
Nella prima vediamo Giovanni (Nanni Moretti), regista impegnato nelle riprese della sua nuova pellicola, e sua moglie Paola (Margherita Buy), alle prese con la produzione di un film, per la prima volta non il lungometraggio di suo marito.
La seconda storia è quello raccontata dal film di Giovanni. Ambientata nel 1956, al tempo della rivoluzione ungherese, ha come protagonisti Ennio (Silvio Orlando), redattore dell’Unità e segretario di un circolo romano del Partito Comunista Italiano, e sua moglie Vera (Barbora Bobulova).
Il terzo filone narrativo del film è invece onirico, a sua volta divisibile in in due elementi: da un lato c’è una dimensione musicale, una sorta di commento emotivo di quanto mostrato sullo schermo, dall’altro vediamo un film immaginato da Giovanni, avente al centro la storia d’amore tra due giovani.
Il Sol dell’Amore: la dichiarazione d’amore per il cinema di Nanni Moretti
Tanta confusione sullo schermo, quindi? No, per niente. Anzi. Perché le tre storie scorrono insieme in modo fluido, coordinato e godibilissimo. E anche perché è difficile non vedere in Giovanni ed Ennio due alter ego di Moretti, che mette in scena tutto sé stesso, con grande autoironia e una rara efficacia narrativa.
Da una lato c’è Giovanni, i suoi tic e le sue nevrosi, il suo quarantennale matrimonio in crisi a sua insaputa, la sua difficoltà a comprendere non solo sua moglie Paola, ma anche sua figlia e, più in generale, il mondo nel quale si muove, cinema incluso.
Ed è forse proprio la dimensione metacinematografica la parte più interessante di questa riuscitissima pellicola. Perché Giovanni (e quindi, presumibilmente, lo stesso Moretti) dichiara la sua estraneità a certe pellicole di genere moderne, basate su un uso autoreferenziale della violenza, diventata di fatto un metodo di intrattenimento, e la sua volontà di non piegarsi alle logiche di mercato imposte dalle piattaforme di streaming, votate alla produzione in serie di pellicole concepite solo per intrattenere, e valutate più per la forma che per i contenuti.
Al personaggio di Ennio viene invece demandato il compito di dichiarare il fallimento politico del Partito Comunista Italiano e forse, per estensione, di tutta la sinistra in generale. L’intervento armato sovietico, che nella realtà represse in modo feroce la rivolta popolare, mette alle strette Ennio, che non prende posizione in attesa dell’infausta decisione ufficiale del Partito, mentre sua moglie Vera si schiera immediatamente con gli insorti.
L’artificio narrativo di mettere in scena la messa in scena di un film è stato utilizzato molte volte nella settima arte, come abbiamo (anche) visto nel recente Il Ritorno di Casanova, di Gabriele Salvatores. Ma se quest’ultima pellicola può essere considerata un apprezzabile esercizio di stile, Nanni Moretti è andato molto più in là.
Non solo per la presenza di una componente onirica, molto funzionale alla storia, sottolineata da una una colonna sonora decisamente azzeccata, tanto che in certi momenti sembra di vedere un musical, e non solo per la dimensione autobiografica che non può lasciare indifferente chi abbia un minimo di conoscenza della filmografia di Moretti, ma anche per il finale, nel quale il regista dichiara il suo amore per il cinema e mostra la potenza mitopoietica della settima arte.
Perché se Giovanni ha di fatto fallito nella vita personale, se ha assistito al tramonto del cinema e degli ideali politici come lui li ha amati, può sempre rifugiarsi nel mondo della narrazione, dove il Partito Comunista Italiano guidato da Togliatti ascolta la voce e il cuore del popolo e si schiera contro l’Unione Sovietica, per poi addirittura realizzare gli ideali utopici sognati da Marx e Trozky.
Un finale ambivalente, che può essere anche letto come una triste fuga dalla realtà per rifugiarsi nella dimensione del sogno, e in effetti in tutta la pellicola si respira (anche) una profonda nostalgia per un passato che molto ha promesso e poco ha dato.
Ma nel film c’è molto altro, a cominciare dalla dimensione umana che Moretti ha fatto trasudare dai suoi personaggi, per passare a una visione metacinematografica che, glissando sulle infinite e apprezzabilissime citazioni, trova la sua potente espressione nella sfilata finale in cui vediamo, oltre agli attori che hanno lavorato in questo film, molti altri, che hanno marciato insieme sotto uno sventolare di bandiere rosse che forse – forse – vogliono essere un sofferto commiato. Forse. Ma personalmente spero di no.
Grande Moretti, e grandissimo film. Da gustare. Al cinema. O dove volete.