Il Ritorno di Casanova: la recensione del film di Gabriele Salvatores

Una pellicola visivamente apprezzabile ma non entusiasmante, di fatto un buon esercizio di stile che però lascia molto poco allo spettatore

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Il Ritorno di Casanova: la recensione del film di Gabriele Salvatores

Leo Bernardi (Toni Servillo) è un affermato regista in piena crisi creativa ed esistenziale. Ha appena finito di girare un film ma non riesce a terminarne il montaggio, affidato al suo montatore storico, Gianni (Natalino Balasso), su cui di fatto scarica tutto il lavoro.

Parallelamente assistiamo alle vicende di Casanova (Fabrizio Bentivoglio), protagonista del film realizzato da Leo, in procinto a essere mostrato al Festival di Venezia.

Casanova e Leo vivono storie parallele con molti punti in comune. Entrambi vivono una relazione difficile con una donna molto più giovane di loro e hanno a che fare con un giovane, che ne mette in discussione il ruolo di maschio alfa.

Fabrizio Bentivoglio in Il Ritorno di Casanova

Il Ritorno di Casanova: un film stilisticamente impeccabile che però lascia molto poco allo spettatore

La realtà contemporanea di Leo ci viene mostrata in un curato bianco e nero, mentre quella settecentesca di Casanova è a colori. Una scelta che forse sottolinea la grigia esistenza del regista, contrapposta alla vivacità del mondo rappresentato nelle sue opere cinematografiche.

Se Leo non riesce a gestire il rapporto con la sua giovane compagna, Silvia (Sara Serraiocco), nel quale di fatto ha un ruolo passivo, Casanova ricorre a un miserabile sotterfugio per andare a letto con l’avvenente Marcolina (Bianca Panconi).

L’attempato regista teme la concorrenza di un giovane collega, Lorenzo Marino (Marco Bonadei), mentre l’avventuriero veneziano trova sulla sua strada un aitante ufficiale (Angelo di Genio).

In entrambe le realtà rappresentate i due attempati personaggi protagonisti dovranno arrivare alla resa dei conti finale con i loro antagonisti nel fiore degli anni. Con esiti molto differenti.

Che dire. Il film nel suo complesso è molto curato visivamente. Da questo punto di vista sono molto apprezzabili anche le transizioni tra i due mondi mostrati, quello contemporaneo in bianco e nero, e quello settecentesco a colori.

Il problema è che non si capisce bene cosa voglia dirci Salvatores con questo suo lavoro, al di là di mostrarci un apprezzabile esercizio di stile e offrire all’ottimo cast un occasione per impersonare i numerosi personaggi presenti nei due racconti.

La crisi esistenziale di Leo è in realtà scarsamente giustificata dai fatti mostrati: vive una vita agiata in una casa ipertecnologica, viene venerato da tutti come un maestro, è comunque capace di attrarre a sé una giovane donna che sembra non essere attratta dai suoi soldi, ha comunque al suo fianco della gente che gli risolve i problemi, nonostante il suo comportamento in definitiva vigliacco e parassitario.

In effetti Leo si comporta in modo così egoista e autoreferenziale che questa pellicola rischia di potere essere vista come un’apologia del narcisisimo di Leo. Del resto è lo stesso personaggio (difficile non vedere il lui una rappresentazione dello stesso Salvatores) a dire in un'intervista che “non sa cosa voglia dire il suo film”.

Che lo stesso Salvatores abbia voluto, con questa battuta del suo alter-ego cinematografico, candidamente ammettere la vera natura di questa sua pellicola? In tal caso tanto di cappello per l’onestà intellettuale.

O forse il problema è che Salvatores ha voluto dare una enfasi esagerata a problematiche tutto sommato banali, legate all’ego ferito di una persona di successo che si rende conto di essere avviata sul viale del tramonto per motivi meramente anagrafici, pur vivendo una vita agiatissima per gli standard della sua epoca.

Mettendo in scena due protagonisti per i quali è difficile provare empatia, nonostante l’ottima prova fornita dagli attori (o forse anche per questo).

Certo, rimane l’ottimo esercizio di stile. Forse troppo poco, però. Peccato.