Washington, futuro prossimo. Il Presidente degli Stati Uniti d’America prova un discorso alla nazione, millantando che la vittoria è vicina. In realtà le forze ribelli stanno avanzando verso la capitale, sbaragliando le truppe a lui fedeli.
Nel frattempo un piccolo gruppo di giornalisti sta pianificando di raggiungere la Casa Bianca per intervistare quello quello che potrebbe essere l’ultimo Presidente, prima che tutto collassi.
La leader del team è la famosa fotoreporter Lee Smith (Kirsten Dunst), ci sono poi il suo collega Joel (Wagner Moura) e l’anziano Sammy (Stephen McKinley Henderson), che nonostante gli acciacchi dell’età non vuole mollare. All’ultimo momento si aggrega la giovane ed entusiasta Jessie (Cailee Spaeny), che stravede per Lee e vuole diventare anche lei una reporter di guerra, costi quello che costi.
Il piccolo gruppo parte verso Washington, e comincia un viaggio negli orrori della guerra civile che dilania gli Stati Uniti d’America…
Civil War: molto più di un film su una distopia non troppo improbabile
Civil War non è solo una pellicola che vuole mostrare il possibile esito delle divisioni attualmente presenti nella società statunitense, né può essere etichetto come un semplice film di guerra.
Di fatto propone una riflessione sul giornalismo e sul valore delle immagini nella società contemporanea, dominata dal visivo e dalle fake di ogni tipo, che la tecnologia digitale permette di produrre a piacere, in modo semplice e accessibile a moltissimi.
Non per niente Joel utilizza una macchina fotografica analogica, perdendo tempo per sviluppare le pellicole tra un combattimento e l’altro, utilizzando una semplice attrezzatura da lei stessa messa a punto.
Ma è l’esperta e disillusa Lee che ci ricorda il valore di testimonianza che l’attività giornalistica dovrebbe avere, un alto ideale per cui il suo gruppo rischia la vita ogni giorno, e per il quale molti ci rimetteranno la pelle nel corso della narrazione.
Un visione romantica di questa professione che forse farà sorridere qualcuno, ma che permea tutta la pellicola di Garland, che dal punto di vista visivo è semplicemente meravigliosa.
Il film si concentra spesso sui volti dei personaggi, sfocando il sottofondo, e scorre lentamente, alternando crude azioni di combattimento a momenti di riflessione, incastrati tra loro perfettamente, permettendo allo spettatore di assorbire l’atmosfera quasi surreale della narrazione, tanto sono distanti dal comune sentire le atrocità commesse dai combattenti.
Il film non prende mai posizione a favore di una fazione, anzi, si guarda bene anche dal descrivere a fondo le geometrie delle parti contendenti. Tutti quello che riusciamo a capire è che il governo centrale di Washington è assediato da diverse realtà sovranazionali, probabilmente in lotta anche tra loro, e che gli Stati Uniti d’America sono dilaniati da una mattanza dove le milizie locali fanno più o meno quello che vogliono.
E lungo il viaggio che li porterà alla resa dei conti finale nella Casa Bianca a Washington, Lee e Jessie usano la fotografia per documentare tutto quello che vedono, spesso mescolandosi con le truppe combattenti in prima linea, tanto che alle volte sembra che fucili e macchine fotografiche siano quasi degli strumenti intercambiabili (tra l’altro, in inglese il verbo shoot significa sia sparare, che fotografare, che girare un film).
Insomma un film sorretto da una storia avvincente, visivamente meraviglioso, che si presta a diversi livelli di lettura, ricco di suggestioni, curato nei minimi dettagli.
Da vedere. Al cinema.