Adagio: recensione del film di Stefano Sollima

Un riuscito neo-noir con un cast stellare, centrato sull'ambiguità del male e sul rapporto tra padri e figli, ambientato in una Roma distopica

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Adagio: recensione del film di Stefano Sollima

Manuel (Gianmarco Franchini) partecipa a una festa riservata, nella quale scorrono fiumi di alcol e droga. Il suo obiettivo è girare filmati compromettenti su un uomo politico di spicco, mentre questi indugia in comportamenti indegni del suo ruolo istituzionale.

Ma qualcosa va storto. Preso dal panico, scappa a gambe levate, inseguito dai suoi mandanti, decisi a fargliela pagare cara. Si rifugia nella casa di Polniuman (Valerio Mastandrea), un vecchio amico del padre, che lo spedisce da Cammello (Pierfrancesco Favino), ex galeotto che tuttavia ha dei vecchi conti da pagare con il padre di Manuel, Daytona (Toni Servillo).

I tre personaggi sono legati da un oscuro passato: facevano infatti parte della banda della Magliana.

Toni Servillo in Adagio

Adagio: un intrigante neo-noir crepuscolare con un cast stellare

Ormai sono ridotti a tre rottami in attesa della fine: Polniuman è cieco, Cammello è malato terminale di cancro, Daytona è affetto da una demenza che a tratti lo riduce in stati imbarazzanti.

Tuttavia ci sono alcuni vecchi conti che devono essere chiusi, e la fuga di Manuel mette in moto dei meccanismi perversi che costringono tutti i personaggi a fare i conti con il loro passato.

Il film scorre lentamente – da cui, forse, il titolo - indugiando sui vari personaggi, incatenati ai codici d’onore della malavita, ai quali rimangono coerenti fino in fondo, non importa quanto grande sia il prezzo da pagare.

L’ambientazione è in una Roma quasi distopica, devastata da enormi incendi che ne minacciano le periferie, metafora di un una società marcia, schiava del vizio e del denaro, un girone dantesco nel quale gli adulti sembrano incapaci di cambiare le scelte di vita sbagliate che hanno fatto.

Non fanno certo eccezione le forze dell’ordine, corrotte e intrinsecamente conniventi con la malavita e la malapolitica, bene rappresentate da Vasco (Adriano Giannini), ufficiale dei carabinieri corrotto e pronto a tutto pur di raggiungere i suoi obiettivi.

La labilità del confine tra il bene e il male è infatti una delle colonne portanti del film, che vede i personaggi fare i conti con i propri valori e codici d’onore, paradossalmente forse più forti nei delinquenti matricolati che nelle istituzioni.

La storia è tutta al maschile, e il rapporto tra padri e figli è un altro nucleo narrativo molto interessante. Se i genitori sono incapaci di redimersi e si sono condannati all’autodistruzione, l’unico raggio di speranza sembra provenire proprio dai figli dei protagonisti, che riescono in qualche modo a rimanere puri in un mondo lercio fino al midollo.

Il cast è stellare, ed efficacissimo nel rendere credibili i vari personaggi. Grandissimo Pierfrancesco Favino (recentemente visto nello splendido Comandante), quasi irriconoscibile nei panni di Cammello, malato terminale, dalle movenze lente e impacciate, ma ancora capace di lottare con tenacia per ciò in cui crede.

Un plauso va anche a Toni Servillo, che di fatto ha interpretato due persone con fisicità differenti, perché Daytona ha due modalità comportamentali completamente diverse: in preda alla demenza e in condizioni “normali”.

Molto bravo anche Adriano Giannini, che ha reso efficacemente la dualità di Vasco, interiormente dilaniato, da un lato affettuoso e responsabile padre di famiglia, dall’altro spietato delinquente che usa la divisa per commettere crimini spietati.

In definitiva Adagio è un neo-noir riuscito e intrigante, nel quale l’azione è subordinata alla resa dei personaggi e al loro mondo interiore.

Da vedere. Al cinema.

Adagio - trailer