Yiddish Blues è un affondo poetico e musicale nelle culture dell’esilio, nella spiritualità dei popoli senza patria, nel dolore e nella resistenza trasformati in canto. Si apre con Es brent! (Sta bruciando!), la canzone-manifesto scritta nel 1936 da Mordechai Gebirtig che racconta l’incendio di una città come metafora di persecuzioni e ingiustizie. Prosegue con Gelem, gelem, l’inno del popolo Rom, che diventa cuore pulsante del concerto, ponte tra memorie nomadi e identità negate. Yiddish Blues è una costellazione di lingue, canti, racconti e suoni che sfuggono a ogni categoria. Un Blues non canonico e profondamente eretico, come lo definisce lo stesso Ovadia, fatto delle storie di chi è costretto a camminare, a sopravvivere, ma anche a cantare per esorcizzare il dolore. In scena si incontrano personaggi segnati dal maltamé, termine che nella parlata degli ebrei di Venezia indica il tormento dell’anima, e che trova eco nel più classico woke up this morning del blues afroamericano. Sul palco, Moni Ovadia dà voce e corpo a questo universo errante, accompagnato da due musicisti straordinari: Giovanna Famulari al violoncello, voce e pianoforte, e Michele Gazich al violino, viola, pianoforte, voce e percussioni psicoacustiche. Insieme hanno costruito un concerto che è rito laico, atto civile, esperienza poetica, un atto di memoria e resistenza. Le canzoni diventano ferite che parlano, strumenti contro l’oblio, melodie per le orecchie annoiate dei boia. Si berrà il latte nero dell’alba, citando Paul Celan, alla ricerca di un frammento di luce per i tempi bui che stiamo attraversando. |