The Running Man: recensione del film di Edgar Wright

Un racconto senza personalità, che fa rimpiangere la solida struttura narrativa e i personaggi memorabili di un tempo.

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The Running Man: recensione del film di Edgar Wright

Negli Stati Uniti d'America di un prossimo futuro distopico, Ben Richards (Glenn Powell) è un prestante operaio che ha perso il lavoro perché si è esposto con i datori di lavoro per difendere i suoi colleghi.

Sua figlia è gravemente ammalata e ha bisogno di cure mediche, ma né lei né sua moglie, Sheila (Jayme Lawson), che lavora come cameriera in un club, hanno i soldi per sostenere le spese sanitarie.

Ben pensa di tentare la sorte e partecipa alle selezioni per iscriversi a uno dei numerosi spettacoli in cui la gente comune rischia la pelle per guadagnare soldi. Le sue qualità atletiche e la sua rabbia interiore, che lo rendono una macchina da guerra, vengono ben presto notate.

Alla fine, gli viene proposto un contratto e lo firma per partecipare a The Running Man, lo show più pericoloso e il più pagato disponibile. L'obiettivo è sopravvivere per 30 giorni mentre si è inseguiti dai Cacciatori, micidiali assassini professionisti. Chi ci riesce incassa un premio stratosferico.

Comincia la caccia, senza esclusione di colpi...

Glenn Powell in The Running Man

The Running Man: un remake che dimostra come non tutte le distopie meritano di essere aggiornate

Il film è tratto dall'omonimo racconto di Stephen King (firmato con lo pseudonimo di Richard Bachman) ed è la sua seconda trasposizione cinematografica, dopo quella del 1987, firmata da Paul Michael Glaser, con l'iconico Arnold Schwarzenegger nei panni del protagonista.

Impossibile, per quanto mi riguarda, non fare un confronto tra le due pellicole, entrambe figlie del loro tempo.

Dove Arnold Schwarzenegger incarnava un militare caduto in disgrazia con un carisma di ferro e una giustificata furia professionale, Glenn Powell interpreta un generico padre di famiglia con un'inspiegabile, aspecifica "incazzatura totale". È un ottimo attore, ma è costretto a interpretare un personaggio monodimensionale la cui sopravvivenza sembra dipendere più dalla fortuna che dalle abilità.

Jayme Lawson in The Running Man

Il nuovo The Running Man estende l'arena a tutto il Nordamerica, introducendo cacciatori privi di mordente e una dinamica di caccia free-for-all debole. Scompare la satira mirata dello show televisivo, lasciando spazio a un'azione generica e ondivaga.

È incomprensibile che un regista del calibro di Edgar Wright possa partorire un lavoro così privo di personalità. La realtà virtuale e l'appannarsi della differenza tra finzione e realtà qui non sono strumenti di riflessione sociale, ma una scusa per tenere insieme una trama poco solida, con villain inconsistenti e un finale debole che non giustifica in alcun modo il ruolo di "salvatore del mondo" del protagonista.

E mentre quest'ultima trasposizione cinematografica dura 133 minuti, quella di Paul Michael Glaser ne dura solo 101. Sono 32 minuti inutili di diluizione. La CGI e gli effetti speciali non stordiscono; coprono solo il vuoto di un racconto costruito male.

Il The Running Man (2025) è guardabile solo a patto di non aver visto l'originale. È un film d'azione che garantisce un intrattenimento superficiale, ma è la prova che un aumento di budget e di minutaggio - e l'uso massiccio della CGI - non potranno mai sostituire la solida struttura narrativa e i personaggi memorabili di una volta.

The Running Man - trailer ufficiale ITA