1952. Il piccolo Sammy Fabelman (Gabriel LaBelle) viene portato per la prima volta al cinema dai suoi genitori. Il film è Il Più Grande Spettacolo del Mondo, di Cecil B. DeMille. Sammy è spaventato, suo padre cerca di rassicurarlo spiegando gli aspetti tecnici del cinematografo, mentre la madre cerca di ingolosirlo prospettandogli un’esperienza emozionante: “I sogni sono cose che non dimenticherai mai”.
La proiezione è un evento destinato a cambiare la vita del ragazzino. E di chi gli sta intorno, visto che comincia a girare con una attrezzatura amatoriale film western e di guerra nei deserti dell'Arizona, reclutando parenti e amici.
Il tempo scorre, e per la seguire la promettente carriera del padre la famiglia si sposta a Los Angeles, in California, dove cominciano i primi guai.
L'ormai adolescente Sammy si scontra infatti con l’accanito antisemitismo dei suoi compagni di scuola. Visionando alcuni filmini girati in famiglia, scopre inoltre che la relazione tra i suoi genitori è tutt'altro che solida. Per lui, un trauma devastante, destinato a segnarlo profondamente.
La panacea a ogni problema? Ovviamente, il cinema…
The Fablemans: una dichiarazione d’amore per il cinema che sconfina nella stucchevole autocelebrazione
Sammy Fabelman è l’evidente alter ego di Steven Spielger, che per suo tramite dichiara il suo amore sconfinato per il cinema, realtà poliedrica che può essere al tempo stesso una sorta di psicoterapia, una modalità di visione del mondo e un potente mezzo di divertimento ed evasione.
Un strumento che è una sintesi delle opposte visioni del mondo dei suoi genitori: richiede competenza tecnica, infatti può e deve essere migliorato per regalare sempre più convincenti rappresentazioni della realtà agli spettatori, dal momento che è anche una macchina per fabbricare sogni. Alle volte più verosimili e credibili della stessa realtà.
Nel film ci sono alcuni momenti toccanti che difficilmente possono lasciare indifferente lo spettatore, specie se cinefilo. Tuttavia queste pregevoli perle sono diluite in due ore e mezza di narrazione che scorre lentamente, indugiando su aspetti della famiglia Fabelman che francamente sono molto meno interessanti.
In particolare, visto con gli occhi di oggi, è difficile immedesimarsi nel giovane Fabelman quando vive la separazione dei genitori, consensuale e senza nessuna violenza domestica, come un trauma devastante. Tra l’altro la sua famiglia è più che benestante, tanto da potersi permettere una villa a Los Angeles.
Inoltre la figura della madre, pianista che ha rinunciato alla propria carriera per seguire la famiglia, viene dipinta quasi come una macchietta nevrotica, piuttosto che come una persona creativa e sognatrice, costringendo la brava Michelle Williams a una recitazione sopra le righe.
Certo, il film fornisce diverse chiavi di lettura per comprendere meglio la produzione cinematografica di Spielberg, ma non aggiunge nulla a quanto non sia già abbondantemente risaputo. Il rischio è che per lo spettatore smaliziato il film possa diventare una fiera delle banalità.
In effetti, per quello che è ormai diventato uno dei più famosi ed acclamati registi mondiali, è facile raccontare che bisogna credere nei propri sogni, anche se c’è un prezzo da pagare. Tranquilli: è dura, ma il successo arriva, magari inatteso. Magari quando state per mollare, sfiniti dalle avversità della vita, anche se appartenete a una famiglia tutto sommato ricca, che può permettersi di aiutarvi anche quando i genitori si sono separati.
Ma resistete, perchè è meraviglioso quando il sogno diventa realtà, specie quando è John Ford (David Lynch) che passa il testimone, sia pure a modo suo, al giovane e promettente Sammy Fabelman aka Steven Spielberg, che felice trotterella verso il suo radioso futuro.
In effetti, raccontato così, c’è la seria possibilità che un atto d’amore verso il cinema possa essere letto come un atto d’amore verso sé stessi. Del resto rendersi conto che la vita privata del giovane Spielberg ha condizionato la sua produzione cinematografica è un po’ la scoperta dell’acqua calda: tutti gli autori finiscono per essere in qualche modo autobiografici e raccontare le proprie esperienze di vita.
A mio avviso stiamo parlando di una pellicola di per sé quasi banale, sia pure con qualche guizzo interessante, che probabilmente sarebbe rapidamente dimenticata se non fosse stata fatta da Spielberg. Ma vabbè, il cinema è anche questo…