Valore morale delle radici e amore per la vita nella poesia dialettale di Domenico Minardi
È noto come il processo di crescita personale di ognuno comporti un distacco inevitabile dal proprio contesto adolescenziale, necessiti di una sostanziale “rottura delle radici” quale premessa della maturazione intellettuale-morale, quale condizione irrinunciabile per la conquista di una sana autonomia individuale, contraddistinta in seguito da aspirazioni ideali, progetti di vita, programmi di lavoro, impegni umani e professionali progressivamente meglio definiti, più precisamente determinati.
Nella stagione dell’esistenza in cui sembra attenuarsi tale tensione progettuale, quando si avvicina l’età della pensione, appare spontaneo il bisogno di tornare indietro nel tempo, di “ricomporre le radici”, di riappropriarsi delle antiche esperienze, in un delicato recupero memoriale vòlto ad assicurare loro una collocazione adeguata all’interno di un itinerario, i cui valori si intende consegnare ai discendenti, chiamati alla funzione di una preziosa, confortante testimonianza, come credo sia capitato al medico veterinario Domenico Minardi nei riguardi della figlia Lucia e della diletta nipote Daniela, le quali hanno curato la pubblicazione per i tipi dell’Editore Guido Miano di una raccolta di versi originariamente redatti nel dialetto nativo della Romagna faentina, e specificamente in quello di Castel Bolognese, e poiaccompagnati dalla traduzione in italiano. Il libro si intitola dal componimento incipitario Quand ’casémia burdèl (Quando eravamo ragazzi): “Tot’gnì quèl l’era bon: cun un scjòp rot / andimia a càza par ciapé un usél: / par un amìg us potèva fer al bôt / cun gnìnt ’as divartèma e l’era bel! / L’era bel a corer drìe vapòr / ’che fiscjéva e us pardéva a fè d’la strȇ, / l’era bel t’la not, senz’armòr canté, / cardénd d’essarguinté di ré” (“Ogni cosa era buona: con un fucile scassato / andavamo a caccia per uccidere un uccello, /per un amico si poteva fare a botte, / con poco ci divertivamo ed era bello! / Era bello rincorrere il treno a vapore / che fischiando si perdeva in fondo alla strada, / era bello nel silenzio della notte cantare, /sognando di essere diventati dei re”).
Un grande storico francese, Lucien Febvre, ha sostenuto che gli uomini non ricordano mai meccanicamente la loro storia, bensì la rielaborano sempre, ripensandola in base alle nuove problematiche etico-civili che il tempo presente propone di continuo; ritengo che qualcosa di analogo avvenga anche nella memoria del singolo, che si rivela giocoforza selettiva a seconda delle sollecitazioni psicologico-affettive dell’età adulta: “Era un correre per comprare un pallone, / una ciambellina, un bel trenino; / ci sfiatavamo a soffiare in una grossa piva, / ci facevamo in quattro per avere un bel giocattolo. /Tutto quel correre, da grandi dura ancora / perché nella vita manca sempre qualcosa: / quel giro che da ragazzi facevamo allora / dura sempre, / ed è sempre bello!” (Speranza, da ora citando solo in lingua). Ne consegue un’indubbia curvatura nostalgica: “Voglio tornare a cantare senza pensieri, / voglio tornare in braccio alla mia mamma, / voglio ancora correre quei sentieri / e cantare gli stornelli alla castellana”, La voce del gallo), con prevedibili esiti “idillici”: “Quando crescevano tanti e tanti bimbi, / con le mani che abbracciate al cielo / sembrava cercassero una loro strada: / una strada in un mondo che fosse sempre bello!” (Ritorno).
L’autore sa comunque costruire il discorso lirico in una forma più complessa, poiché non elimina le note malinconiche (“Quando ti guardo, o bella fontanina, / mi sovviene il ricordo di un mondo che non può tornare: / l’avevo in mente l’altra mattina / e mi venne il groppo in gola”, Vecchia Pocca), curando l’esattezza delle rappresentazioni descrittive (“Il grillo scappa via quatto quatto / la lucertola è distesa al sole, / la cicala chiacchiera inquieta, / la cavalletta si è librata in volo”, Ritorno in Romagna), aprendosi altresì – in testi come Un intervento o Chiamata notturna – a situazioni di curioso divertissement, che assicurano alla silloge varietà tonale e felice equilibrio compositivo. D’altronde, nonostante che la vita ci riservi prove e dolori, la stessa non è mai priva di splendide sorprese: “Un giorno mi ha sfiorato la morte in una cantina / e poi ecco la pagina più bella: la mia donna / e poi le carezze della mia bambina / e l’interminabile rosario della nonna” (La statuina).
Floriano Romboli