La copia, la possibilità di imitare all’infinito un prodotto percepito come “originale”, è sempre stata vista come qualcosa di negativo e associata alla mancanza di creatività. Ma è davvero così? Marcel Duchamp scriveva, a proposito: “La gente dice che una cosa fatta a macchina non è un’opera d’arte. È ridicolo. Un duplicato o una ripetizione meccanica hanno lo stesso valore dell’originale”. Ed è proprio dalla sua risposta che parte la mostra al Peggy Guggenheim “Marcel Duchamp e la seduzione della copia”, a cura di Paul B. Franklin, che si pone l’obbiettivo di analizzare diverse fasi della carriera dell’artista sottolineando il suo rapporto con la riproduzione delle opere: un tema, questo, quanto mai attuale. Viviamo oggi in un mondo che ci offre infinite possibilità di copiare, fotografare e condividere immagini, tanto che poche di queste, passandoci davanti, si fissano nella nostra mente. Però, sembra dirci Duchamp, bisogna rendersi conto di un fattore: ogni copia non è mai identica all’altra o al modello originale, e lo sottolinea cambiando leggermente alcune opere che aveva “ridisegnato” dalle sue stesse creazioni precedenti. Lui stesso affermava che gli faceva male vedere le sue copie allontanate le une dalle altre, poiché così non si sarebbe vista la lotta tra somiglianza e differenza che era in atto tra esse. La mostra procede per archi temporali: si incomincia dalla sua giovinezza, dove è inevitabilmente attratto ancora dai contesti familiari, per poi procedere a quello che è il centro concettuale e visivo dell’esposizione: la "Scatola in una valigia”. Questa nasce da un desiderio specifico dell’artista, quello di “fare un album con praticamente tutte le cose che ho prodotto”, cosa che riesce a fare attraverso 69 riproduzioni e repliche in miniatura delle sue opere chiuse in questa curata scatola di cartone. La “Scatola in una valigia” qui esposta è la numero I/XX dell’edizione deluxe, acquistata dalla stessa Peggy Guggenheim. Vi troviamo anche una copia in miniatura di uno dei dipinti più grandi e complessi dell’artista, ovvero “Il re e la regina circondati da nudi veloci” che esplora il tema degli scacchi che ritroviamo come ritornello in diversi momenti della sua vita (e di conseguenza in diversi momenti della mostra): la scacchiera, come l’arte, rappresenta infinite modalità di creazione, gli scacchi hanno “le possibilità visive dell’arte”. Ma c’è di più: non solo le copie delle opere hanno la valenza di unicità, ma anche gli appunti, ciò che è scritto e spiega l’opera che diventa parte dell’opera stessa. Esattamente quello che vuole dimostrare con il “Grande vetro”, opera ermetica che può essere compresa solo grazie alle note poste al centro della sala dedicata, mostrate quindi loro stesse come se con la loro spiegazione potessero essere considerate anche loro come autonome. Ma se le copie sono arte, se gli appunti sono arte, allora viene da chiedersi “si può fare qualcosa che non sia arte?”. Questa è la domanda alla base del ready made, un’impresa iniziata da Duchamp nel 1914 che vuole sottolineare la singolarità di oggetti comuni di produzione industriale, scelti dalla moltitudine e isolati dal loro contesto. Così ogni oggetto è diverso dalle altre sue copie, poiché viene rivestito di un’altra funzione (emblematico è l’appendino posto sul pavimento, definito dall’artista “Trabocchetto”). Tutte queste opere descrivono l’idea di arte e di vita di Duchamp, tanto più che, riguardo alla “Scatola in una valigia”, Walter Arensberg gli disse: “Lei hai inventato un nuovo tipo di autobiografia”. Ma non si tratta solo di questo. Ciò che viene messo in luce dalla mostra è anche l’attualità delle idee di un artista visionario. E questo ce lo comunica la celebre Gioconda baffuta, anche questa naturalmente una revisione dell’artista. Sull’opera è incollata una tavoletta su cui scrive “l’inverso della pittura” o “il lato sbagliato della pittura”. Se letteralmente si può fare riferimento al fatto che il supporto dell’opera è uno strofinaccio (un surrogato della tela), o al fatto che se si rigira l’opera sul retro appare al rovescio, c’è sicuramente un significato che va oltre l’insolito supporto: per l’artista che l’ha creata voleva significare uscire dai canoni artistici consolidati, un artista che pensava “al rovescio”, e che solo così facendo è riuscito a fare arte liberamente, aprendoci gli occhi. Questa nuova Gioconda non ha sessualità, non la vuole avere, è totalmente libera, e sembra dirci, con quello sguardo ironico sopra i baffi, di guardare con un’altra prospettiva, quella che pensiamo sbagliata, per liberarci come ha fatto lei. D’altronde lo racconta anche il gilet nella parete di fronte, un ready made regalato alla futura moglie di Paul Matisse: i bottoni recano al contrario caratteri tipografici con il nome della donna. L’inversione dell’abbigliamento (è un gilet da uomo), e i caratteri al contrario ci dicono che in realtà tutto può essere diverso, sta a noi vederlo, e una volta compreso il rovescio delle cose, apparirà come il lato corretto e replicabile all’infinito.
Marcel Duchamp e la seduzione della copia
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