Manodopera: recensione del film autobiografico in stop-motion di Alain Ughetto

Una perla passata inosservata dal grande pubblico, che racconta con grande delicatezza i drammi dell'emigrazione italiana del primo Novecento

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Manodopera: recensione del film autobiografico in stop-motion di Alain Ughetto

Il regista ripercorre le vicende vissute dai suoi nonni, Luigi e Cesira, nella prima metà del secolo scorso. Una storia di emigrazione e sottoproletariato, cominciata ai primi del Novecento, che mette in scena la graduale fuga da un paesino italiano alle pendici del Monviso, sotto la pressione della miseria e dello sfruttamento.

Sullo sfondo scorrono le vicende storiche del periodo: la guerra in Libia, la Prima guerra mondiale, il fascismo, la Seconda guerra mondiale. Grandi eventi sempre vissuti passivamente dai contadini e sottoproletari del tempo, sfruttati nei campi, nelle fabbriche e nei campi di battaglia.

Unica possibilità di salvezza: la fuga all’estero, dove vendere la propria forza lavoro a condizioni migliori. Il titolo del film è eloquente. E qualcuno riesce anche a costruirsi con fatica una certa posizione, nonostante gli alti e bassi della vita, come succede a Luigi.

Un fotogramma di Manodopera

Manodopera: una piccola perla passata quasi inosservata

La tecnica utilizzata è la stop motion, la stessa usata per Wallace & Groomit, per intenderci, solo che in Manodopera si ride poco. Perché la realtà nella quale vivono i suoi personaggi è fatta di miseria, sfruttamento, discriminazione e precarietà.

Il cartello che i protagonisti vedono all’ingresso di un locale francese, “Vietato l’ingresso ai cani e agli italiani”, che è anche il sottotitolo della versione originale del film, è eloquente. Ed è una realtà storica.

Manopera indugia sull’ipocrisia delle istituzioni, sia religiose che politiche, pronte a sfruttare e depredare la povera gente nel momento del bisogno, salvo poi dimenticarsene completamente, abbandonandola alla scelta forzata dell’emigrazione.

Tuttavia il film non cede mai all’autocommiserazione e alla rassegnazione, i suoi personaggi lottano sempre, contro tutte le avversità della vita, e i loro drammi vengono raccontati con delicatezza e poesia.

Del resto l’utilizzo dei pupazzi di plastilina si presta bene allo scopo, e Alain Ughetto introduce la novità di utilizzare la sua mano per entrare nel microcosmo del film, rendendo più vivo ed efficace il dialogo con sua nonna Cesira, che accompagna lo spettatore lungo tutto il racconto.

Un racconto che coniuga la fedeltà storica dei fatti raccontati con la dimensione fantastica e visionaria. Così le zollette di zucchero diventano mattoni, i broccoli gli alberi dei boschi e delle foreste, le cucurbitacee le case dei vari personaggi, stemperando la drammaticità dei fatti raccontati.

L’unico limite del film, se di limite vogliamo parlare, è la sua durata limitata, 70 minuti, comunque coerente con gli eventi raccontati. E dal mio punto di vista questo è un pregio, visto che attualmente la tendenza al cinema sembra essere quella di aggiungere personaggi o accadimenti inutili solo per allungare la storia, nessuno ha capito perché.

In definitiva, Manodopera è una piccola perla, purtroppo passata quasi inosservata dal grande pubblico. Peccato.