L’Esorcista del Papa: la recensione del film di Julius Avery con Russell Crowe

Un film che si lascia anche guardare, a patto di non considerarlo un horror ma una compiaciuta e autoironica presa per i fondelli del genere.

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L’Esorcista del Papa: la recensione del film di Julius Avery con Russell Crowe

1987. Dopo avere officiato un improbabile rito esorcistico sui generis in salsa calabra, con tanto di possessione suina e lupara in azione, Padre Gabriele Amorth (Russell Crowe) si ritrova in Vaticano, a rendere conto del proprio operato.

Ma il Papa (Franco Nero) è dalla sua parte, e dopo averlo protetto dai suoi detrattori lo spedisce in Castiglia, nell’Abbazia di San Sebastiano.

Padre Amorth affronta imperturbabile il viaggio in Lambretta, partendo all’alba e raggiungendo la sua meta al tramonto. Dopo essersi ristorato con una tracannata di superalcolici, affronta la difficile situazione che si è venuta a creare nel vetusto edificio.

Il giovane prete del posto lo introduce alla proprietaria della magione, una donna americana con prole al seguito. Il figlio più piccolo è ovviamente già posseduto da un demonio, che peraltro attende impaziente l’arrivo dell’esorcista del Papa, con un preciso piano d’azione.

Padre Amorth scopre ben presto che i sotterranei dell’antica abbazia nascondono un terribile segreto, che la Chiesa cattolica aveva sigillato secoli fa. Comincia lo scontro tra bene e male…

Franco Nero in L'Esorcista del Papa

L’Esorcista del Papa: un film che si lascia anche vedere, a patto di non prenderlo sul serio

Il film è molto liberamente ispirato alla figura realmente esistita di  Padre Gabriele Amorth. I fatti veri (pochissimi) sono palesemente mescolati a una marea di cose inventate, spesso inverosimili, tanto che la sospensione dell’incredulità dello spettatore è duramente messa alla prova.

Il film sembra essere un tradizionale horror fino all’improbabile e quasi risibile viaggio in Lambretta del protagonista, dove avviene un drastico cambio di registro, che mette lo spettatore davanti a un bivio: non prendere la pellicola sul serio, guardandola con un sardonico sorriso stampato sulle labbra, oppure abbandonare la sala e consolarsi con un buon grappino, imitando il Padre Amorth messo in scena da Russell Crowe, incline all’uso di superalcolici e sempre pronto a prendere per i fondelli chiunque.

Personalmente ho scelto la prima opzione,  sorbendomi un’ora e mezzo di luoghi comuni e stereotipi del genere horror, sottogenere possessioni diaboliche. In rassegna è passato tutto il catalogo: la vecchia magione che nasconde un mistero, la Santa Inquisizione, il prete anziano con esperienza affiancato dal giovane inesperto che impara presto, il ragazzino posseduto e sfigurato confinato a letto, giovani donne che traviano i preti (una a testa), la ricerca del nome del diavolo, e chi più ne ha più ne metta.

Assolutamente nulla di nuovo sotto il sole, quindi. Tutto molto prevedibile e portato all’eccesso, con dialoghi didascalici e un’esplosione di effetti speciali nella seconda parte del film che rende quasi grottesca una situazione che dovrebbero essere teoricamente terrificante.

Con un Padre Amorth perennemente sopra le righe, tanto che a un certo punto è lecito chiedersi se Julius Avery non abbia disegnato il suo protagonista pensando a un supereroe della Marvel.

Tanto di cappello se è stata una scelta consapevole. Perché il film si lascia anche vedere, a patto di considerarlo un lavoro di compiaciuto e autoironico citazionismo, che non si prende mai sul serio, con un Russell Crowe ben calato nella parte di un Padre Amorth di pura fantasia, intento a dissacrare tutto  e tutti.

Astenersi gli amanti del cinema horror. Che è un’altra cosa.