Il quinto capitolo di una della saghe cinematografiche più popolari del mondo è il primo a non essere diretto da Steven Spielberg. E si vede. James Mangold precipita lo spettatore in un vortice di eventi che si susseguono a ritmo forsennato.
E forse il primo a trovarsi spiazzato in un simile guazzabuglio è lo stesso Indiana Jones, che si trova risucchiato in un racconto dove la maggior parte dei personaggi sono tagliati con l’accetta, o ridotti al ruolo di macchiette e stereotipi.
Nella storia ci sono tutti gli elementi che un appassionato della saga potrebbe aspettarsi: la ricerca di un antico manufatto dalle proprietà (forse) soprannaturali, la solita ciurma nazista cerebrolesa, vogliosa di impadronirsi del potere assoluto, improbabili inseguimenti mozzafiato, antiche vestigia monumentali ricolme di trappole e passaggi segreti, incontri con vecchi amici e compagni d’avventura.
Nel film ritornano sulla scena il buon vecchio Sallah (John Rhys-Davies) e la fiamma di Indy, Marion (Karen Allen).
Se voleva essere un tentativo di mettere in atto una sorta di operazione-nostalgia, beh, lo sforzo ha avuto esiti non eccelsi. L’affettata e banale simpatia di Sallah e lo stucchevole sentimentalismo della (brevissima) comparsata di Marion non salvano un film nel complesso mediocre, scontato e prevedibile, in una terra di mezzo tra cinema di genere e mondo dei videogiochi.
James Mangold ha fatto il suo bel compitino, senza nessun guizzo creativo, mettendo insieme una sequela di situazioni scontate e di luoghi comuni, messe di scena da personaggi piatti e banali. Tanto il successo al botteghino dovrebbe essere assicurato in ogni caso.
Indiana Jones e il Quadrante del Destino: una pellicola decisamente mediocre
Del carisma di Indiana Jones rimane poco. La pellicola comincia con un lungo flash-back nella Seconda Guerra Mondiale, con un Indy ringiovanito dagli effetti speciali, che la mette nel sacco a un battaglione dei soliti nazisti cialtroni, tanto fanatici e nerboruti quanto assurdamente idioti e predisposti a farsi fregare.
Il nostro eroe ci viene poi mostrato alla fine degli anni Sessanta, ridotto a un rottame in via di pensionamento. Ma proprio quando sembra essersi perduto nei bicchieri di superalcolici e nell’autocommiserazione, praticamente ignorato dai suoi studenti, torna dal suo passato la sua figlioccia, Helena (Phoebe Waller-Bridge), che lo rigetta suo malgrado nella mischia.
Ed ecco il buon vecchio Indy ridiventare magicamente un indomito combattente, capace di cavarsela alla grande in situazioni impossibili, addirittura catapultato in un varco spazio-temporale, con (più o meno) sempre al suo fianco la giovane Helena, personaggio tratteggiato con una superficialità imbarazzante.
Problema questo condiviso da tante altre figure che compaiono nella storia. Forse la più penosa è quella a cui un quasi irriconoscibile Antonio Banderas ha dato il suo volto. Ma vabbè, un attore famoso nei titoli fa sempre comodo.
L’unico personaggio che sembra percorrere una sorta di arco narrativo è Indiana Jones, che al termine del racconto ridiventa un vecchio trombone, in balia degli eventi e delle scelte degli altri. Ovviamente lacrimosamente abbracciato alla sua Marion, con la quale mi viene da pensare probabilmente dividerà l’ospizio in cui sarà verosimilmente ambientato il prossimo capitolo della saga.
Va detto che gli effetti speciali non sono male, e per chi vuole godersi una semplice pellicola di azione, perdendosi nel flusso narrativo senza porsi tante domande, magari con qualche birra in corpo per aiutare la sospensione dell’incredulità, il prezzo del biglietto vale certamente le quasi tre ore di proiezione.
Astenersi gli altri.