Il titolo Fiori di Calendula maritima (pianticella salvata dall’estinzione che cresce solo in una piccola parte costiera della Sicilia trapanese) ci colloca subito nella terra di Antonino Stampa, alla quale lo scrittore ci trasporta attraverso i suoi occhi innamorati. Perché, come recitano iversi introduttivi, riecheggiando quanto Goethe diceva della bellezza: «La poesia / non è nelle cose, / ma negli occhi / di chi / le guarda». Ed è così che l’autore ci accompagna lungo le cinque parti che compongono l’opera. Le prime quattro (Come un battito d’ali, Noi e gli altri, Quel che lasciamo, Universo) sono tanto connesse tra loro che le poesie che le compongono sono numerate in sequenza dalla I alla XXXI; la quinta (Belice 1968-2018) è una sorta di poemetto interamente dedicato, a cinquant’anni dall’evento, al drammatico terremoto che colpì Gibellina e dintorni.
L’espressione è affidata a versi brevi, che evocano più che descrivere. Versi tanto spontanei quanto meditati: ad esempio, l’immagine di una tenda da sole basta a richiamare la siepe dell’Infinito leopardiano, e lo scrittore ne fa scaturire una asciutta meditazione sulla vita: «Scorrono ombre / sulla tenda / da sole. // Oltre, / nel limpido azzurro, / voli d’uccelli» (Oltre, poesia IX di Come un battito d’ali). Proprio con una citazione dell’Infinito di Leopardi si apre poi la lirica XXIX della sezione Universo: «Nero, / infinito silenzio / solitudine di spazi / ove smarrirsi…», quasi una personale nota esplicativa della citazione. Leopardi è citato anche nella breve ultima lirica XXXI (della stessa sezione), quasi a testimoniare una fonte d’ispirazione ricorrente.
Antonino Stampa ci offre un’osservazione disincantata della realtà, presentata in genere solo per accenni fugaci, come in una apparentemente placida contemplazione del reale: le parole del poeta, infatti, sono sempre lineari, non ‘aggrediscono’ il lettore con immagini disturbanti. Neppure quando descrivono (nell’ultima parte) le ore drammatiche del terremoto del Belice; né quando accennano ad autentici drammi dell’esistenza, come qui: «…Quanti / in ordinati governi, / ignorati, / senza lasciare traccia / nella nera terra / chiusero / una vita di stenti?» (poesia XXVIII di Quel che lasciamo). E nemmeno quando, con pungente ironia, ricorda: «…Non tingerti la canizie, / non questo / ti renderà giovane» (poesia XXV, ivi), perché: «Di Dio / è il futuro / dell’uomo, / forse, / il presente. // Giorno dopo giorno / affronta la vita, / più non è dato» (poesia XXIII, ivi).
Si può certamente sottoscrivere quanto considerato da Enzo Concardi nel presentare l’opera poetica di Antonino Stampa nell’ampio saggio I motivi lirici predominanti della poetica di Antonino Stampa: «Le opere poetiche di Antonino Stampa percorrono l’essenziale tragitto della condizione umana attraverso una meditazione spesso in solitudine sul senso del tempo, sulla presenza magica e simbolica della natura, sul mistero dell’Incarnazione, riferito alla storia come interprete della perenne lotta tra il Bene e il Male, sul senso della sofferenza».
Al di là della scorrevolezza quasi pacificante dei versi di Antonino Stampa, però, affiorano molti tratti di sofferenza da diverse liriche. Tratti quasi nascosti, ma non trascurabili; ad esempio in Siciliano (lirica XIII di Noi e gli altri), il cui incipit allude a sofferenze secolari, storiche, di vasta portata e non solo individuali: «Sono / di questa terra, / zattera a genti in fuga/ nel vasto mare / o qui venute / per sete di dominio…» (il corsivo del testo è mio). La leggerezza dei versi fluenti, liberi da metrica e rime, quasi copre anche sofferenze più intime, forse taciute per timore del disinteresse altrui, come nella lirica XVI di Noi e gli altri, che per intero recita: «“Ciao, / come stai?”. / “Bene…”. // Abbiamo l’obbligo / di stare bene. / Dovrei aprirti il mio privato, / forse quello dei miei familiari…? / E tu? / Ascolteresti attento, / qualche parola / di solidarietà. / Poi ti allontaneresti. / Per i tuoi urgenti impegni».
La sofferenza emerge più esplicita nell’ultima parte della raccolta, Belice 1968-2018, con undici Quadri di un terremoto e del prima e del dopo – come recita il primo dei due sottotitoli. Qui si palesa come condizione vissuta da un intero popolo, cui il poeta dà personalissima voce: si veda la poesia VI (Ruderi di Poggioreale) che chiude con questi versi struggenti: «…Il vento / fra i muri / urla, / piange nel mio cuore». Un’altra immagine, in particolare, può farci focalizzare su quanto dolore c’è in eventi come il terremoto che colpì il Belice; un dolore intenso, che il poeta sa rievocare con poche asciutte parole: «…il muro di una casa / aperta, / memoria / d’intimità perduta…» (poesia III, Gibellina nuova - Le tre piazze). Parole non tese solo a documentare quella sofferenza, ma «…perché ti si pieghino / i ginocchi / e ascolti nel vento / le voci di quanti / qui ebbero / forma d’uomini…» (poesia VIII, Gibellina - ‘Cretto sui ruderi’ di Burri); parole scritte soprattutto per ricordarla ai giovani - e ce n’è motivo - perché: «…Non hanno memoria / i giovani / immersi in un eterno / presente» (poesia X, Con arroganza).
Insomma, con Antonino Stampa siamo introdotti quasi con dolcezza (la dolcezza del suo linguaggio che scivola via leggero) nell’aspetto forse meno amato, ma più presente in ogni vicenda umana nel mondo: la sofferenza. Che resta tale, anche se la si guarda con animo pieno di speranza perché la speranza permette di collocare tutto il male del mondo all’interno di un disegno positivo, ma non toglie dalla vita la dura esperienza del dolore. Speranza non declamata con pur giuste asserzioni teoriche, ma sommessamente suggerita al lettore con l’immagine umile e concretissima del contadino che «…Apre il solco / e vi depone il seme / e in giugno / campi fecondi / di giallo grano / falcia nel sole, / quel pane / che Dio / con l’uomo ha diviso…» (poesia V di Belice 1968-2018): è la speranza che chi semina possa anche raccogliere.
Dobbiamo essere grati a chi, come Antonino Stampa, con suoi versi pensati «con voce scabra» (come egli stesso scrive nell’ultima poesia XI, Congedo) aiuta a meditare sul dolori e sui mali piccoli e grandi della vita, con una visione sofferente, sì, ma serena, consapevole che tali dolori e mali non dicono l’ultima parola sull’esistenza umana. Uno scrittore che ci dona i suoi pensieri con una poesia rara come i Fiori di Calendula maritima.
Marco Zelioli