Per un artista la produzione di un ritratto ha sempre rappresentato una sfida. Raffigurare una persona non voleva dire soltanto riportare ciò che si aveva davanti a sé, in quel momento, ma vedere quello che stava oltre e dentro la persona ritratta. Così il ritrattista aveva l’arduo compito di rappresentare, cristallizzato in un momento, il passato il presente (e anche il futuro) di una persona, cercando il più possibile di animare l’immagine attraverso il carattere, dandole effettivamente vita (una in particolare) anche sulla tela. Se già nel 1923 Ca’Pesaro aveva ospitato l’importante esposizione “Il ritratto veneziano dell’Ottocento”, in modo da “portare un poco di luce su un periodo della storia artistica della nostra città ingiustamente oscuro” (Barbantini), oggi la Galleria internazionale d’arte moderna ha permesso a tutto questo di rivivere grazie al grande lavoro dei curatori, i quali, ricostruendo il catalogo di oltre 100 anni fa, hanno rintracciato e riportato oltre 160 opere provenienti da tutto il territorio nazionale, già presenti nel catalogo originale. Non solo: numerosi sono stati gli aggiornamenti e le riattribuzioni con 11 nuovi autori riconosciuti. Entrando all’interno delle sale veniamo introdotti in un luogo di dialogo: osserviamo e veniamo osservati da ritratti disposti in sezioni che ripercorrono gli aspetti storici e artistici del tempo. La volontà di celebrare artisti che, con la loro arte, hanno lasciato un segno nel territorio veneziano e veneto in generale (come hanno fatto le persone da loro ritratte), viene qui riletta alla luce di una nuova consapevolezza. Ci troviamo dunque circondati da personaggi, coniugi e famiglie intere che hanno una loro storia e paiono desiderosi di raccontarcela. Fiero, infatti, è lo sguardo del soprano Elizabeth Billington, ritratta da Teodoro Matteini, che con eleganza e sfida ci indica uno spartito, base della sua arte; come allo stesso modo Luigi Piletti ci offre un’immagine del numismatico Luigi Cigoi che ci mostra con austerità e consapevolezza una moneta, come se ci invitasse ad ammirare uno dei suoi tesori più grandi. Tutte cose che sicuramente stonano con l’innocenza e la purezza emanata dalla dodicenne Anna Borsato Orsi di Bevilacqua che con certa timidezza è come se ci invitasse a dipingere con lei la tavoletta che mostra nel dipinto. Non rari sono i ritratti di famiglia, ritratti che però uniscono la dimensione pubblica a un’indagine di intimità condotta dal pittore. Questo è il caso della famiglia de Brucker di Giuseppe Tominz, dove i personaggi, seppure consapevoli di essere osservati (tutti si rivolgono verso di noi), non riescono a fare a meno di dimostrare l’affetto che provano tra loro. Così la madre, cercando di velare l’orgoglio ci indica quasi impercettibilmente il figlio che le sta offrendo un frutto, così il padre, cercando di assumere una posa dignitosa, non riesce a non stringere affettuosamente la mano del figlioletto. Se è chiaro che un ritratto non possa prescindere dalla dimensione psicologica colta dallo stesso autore (che di fatto è chiamato a ritrarre non solo un corpo, ma anche uno spirito), è evidente che molti artisti abbiano preferito ricorrere anche ad attributi o simboli che spiegassero qualcosa in più, o che rendessero chiaro e lampante qualcosa di nascosto, rafforzando la conoscenza dello spettatore. È il caso della nobildonna Matilde Speck Pirovano Visconti di Hayez che con un sorriso amaro e sfidante ci mostra una camelia bianca (simbolo di raffinatezza e perfezione, ma anche di attaccamento amoroso di lunga durata, tema rafforzato dalla fede nuziale che emerge con eleganza dalla mano sinistra). Se c’è quindi chi racconta la propria storia tramite simboli o indizi in via generale, c’è chi vuole, attraverso questi, sottolineare la propria indole o stato d’animo. Evidentemente per ritrarre il mercante e armatore David Maurogonato il pittore Lipparini non credette sufficiente quella espressione austera e controllata che subito ci colpisce, ma decise di aggiungere un cartiglio nelle sue mani che recita: “Lealtà e rettitudine – fu sempre la mia guida”. Dunque, potremmo dire che tutto questo nasca dalla volontà dei pittori e dei committenti non solo di mostrarci, ma anche di farci conoscere chi osserviamo di fronte a noi, in modo che, anche dopo la loro morte, queste persone possano ancora dirci qualcosa. È evidentemente questa la vera essenza del ritratto ed è chiaramente ciò che aveva compreso la pittrice padovana Elisa Benato Beltrami, che si autoritrae con una espressione malinconica e consapevole, tenendo in mano una maschera. Questa non fa riferimento al Carnevale, o almeno lo fa indirettamente. Se durante questa festa siamo invitati a coprirci e mascherarci, a non essere noi stessi, qui assistiamo all’operazione inversa: Elisa Benato Beltrami, si toglie ogni maschera, lasciandoci accedere alla sua dimensione più segreta, cercando un dialogo infinito con ogni spettatore che le si presenterà davanti.
Il ritratto veneziano dell'Ottocento
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