Matteo (Elio Germano) è un boss latitante, che vive recluso in un appartamento di proprietà di una vedova, Lucia (Barbora Bobulova) che è anche la sua segretaria, addetta a scrivere i pizzini sotto sua dettatura.
Catello (Toni Servillo) è un ex politico locale, padrino di Matteo, che torna a casa dopo avere scontato una lunga detenzione per concorso esterno in associazione di tipo mafioso.
Accolto con estrema freddezza dalla moglie, si ritrova con la figlia incinta, sepolto dai debiti e con altri processi in itinere. Viene contattato dai servizi segreti per fare uscire dal suo nascondiglio Matteo, in cambio di una mano per risolvere la sua situazione disperata.
Tutto sembra filare per il meglio, ma le apparenze come sempre ingannano…
Iddu – L’Ultimo Padrino: un film complesso e intrigante con Elio Germano e Toni Servillo in stato di grazia
Questa pellicola è liberamente ispirata alle vicende del boss Matteo Messina Denaro. Il ritratto che viene dato dei pezzi grossi della mafia è lontano anni luce da quello hollywoodiano del cinema mainstream.
Matteo, in un colloquio onirico con il suo padre defunto, gli ricorda che “sei morto in mezzo alle pecore e io sto vivendo come un sorcio”. Una descrizione realistica della sua condizione, quella di un sepolto vivo in un modesto appartamento, che passa il tempo giocando con i videogiochi, cercando di completare un gigantesco puzzle, consumando pasti frugali e rimanendo collegato al mondo solo tramite il carteggio dei pizzini. Una situazione a dir poco penosa.
Altrettanto penosa, e forse ancora di più, è quella di Catello, che si barcamena tra le forze dell’ordine – o supposte tali – una famiglia nella quale è ormai solo tollerato, una cittadina dove viene considerato un povero cialtrone e una situazione economica disastrosa.
Tutte le figure principali del film sono dei maschi falliti, anche e soprattutto nel ruolo di padri, e non è un caso che per il genitore di Matteo il simbolo del potere patriarcale è ’u pupu, una statua conservata religiosamente dalla famiglia mafiosa e poi recuperata dalla polizia e messa in una teca museale.
Una sorta di feticcio che il padre regala al figlio maschio designato a succedergli, dopo che il rampollo ha superato una prova iniziatica davanti a fratelli e sorelle: sgozzare un capretto.
Ma questa è l’unica scena in cui viene mostrata la brutalità del mondo mafioso, maschilista, rurale e legato a tradizioni arcaiche. Per il resto la violenza esplicita è quasi bandita dalla pellicola, che mette invece al centro la profonda insicurezza di Matteo, diviso tra i suoi doveri di boss, una routine giornaliera a dir poco avvilente e la dipendenza psicologica dalla figura paterna, dalla quale non riesce a staccarsi. Un film di maschi falliti, appunto.
E anche le forze dell’ordine vengono fate a pezzi moralmente nel racconto, perché nonostante la buona volontà di qualche singola persona, di fatto convivono consapevolmente con la mafia, limitandosi – nella migliore delle ipotesi - ad assicurarsi che non vengano superati certi limiti.
In altre parole l’apparato istituzionale viene rappresentato come una sorta di garante di un equilibrio instabile e sempre precario, e non si capisce bene chi sia il vero decisore del destino dei vari boss, comunque destinati prima o dopo a finire in gattabuia o nell’obitorio, dopo una vita di meschina latitanza.
Un ritratto di una società senza speranza, dove nella migliore delle ipotesi si sopravvive, dipinto con una galleria di personaggi che spesso sono quasi grotteschi, in situazioni alle volte quasi ridicole, altre volte surreali od oniriche, senza però rinunciare a momenti di forte tensione e offrendo molteplici punti di vista, con un racconto lento ma intrigante. Senza mai rinunciare a una profonda e viscerale condanna della mafia.
Un film con un cast in stato di grazia, a cominciare dallo strepitoso Elio Germano e il bravissimo Toni Servillo, ormai una garanzia consolidata.
Un film da vedere. Al cinema.