ICÔNES

2 min read
ICÔNES
Lygia Pape, "Ttéia 1,C"

“Una passeggiata, un viaggio, un itinerario, quasi un pellegrinaggio”. È così che i curatori Emma Lavigne e Bruno Racine hanno immaginato la mostra "Icônes" della Pinault Collection a Punta della Dogana. Ed è effettivamente un vero e proprio pellegrinaggio quello che incomincia all’inizio della mostra: un viaggio verso la nostra elevazione, un viaggio verso la riscoperta dell’icona stessa che con l’epoca della produzione di massa, dei network, ha iniziato a perdere la sua unicità. Veniamo posti, ogni ora di ogni giorno, a immagini diverse e provenienti da ogni parte del mondo, veniamo esposti a video, suoni, colori, senza che più nessuna di queste cose si fissi, anche per un minuto, nella nostra mente. Ed è proprio da qui che è nato l’obbiettivo di "Icônes": farci riscoprire la singolarità delle immagini e farci, nello stesso tempo, entrare e fare esperienza delle stesse in una completa immersione. Dopotutto, dove portare la rinascita dell’icona e della sua tradizione bizantina se non a Venezia, luogo principe degli scambi con l’Oriente? Tutto questo viene esposto allo spettatore con l’ausilio di oltre 80 opere (lavori mai esposti prima di quest’occasione), e installazioni site-specific di oltre 30 artisti di diverse generazioni. Attraverso queste, lo spettatore viene portato a notare particolari che ogni giorno vede, ma non osserva e non comprende: i raggi di luce della brasiliana Lygia Pape, le foto dei fagotti annodati di Dayanita Singh che non vogliono mostrarci il loro contenuto, ma solo la loro essenza in quanto contenitori. Veniamo catapultati in stanze essenziali e totalmente bianche (siamo noi a colorarle), immagini che accompagnano suoni, suoni che accompagnano immagini, senza che però questa volontà di astrazione ci distolga dal nostro mondo di ogni giorno: la bandiera fatta di capelli che sventola nel video di Edith Dekyndt ricorda innegabilmente la situazione delle donne iraniane. Ed è proprio così, sembra comunicarci "Icônes", che dobbiamo costruirci la nostra soggettività: partendo dalla nostra esperienza terrena e materiale, fino a superarla attraverso l’ausilio delle immagini, diventando un tutt’uno con esse. La soggettività, non a caso, è il tema dell’installazione di Camille Norment: panche di legno che, con la vicinanza dello spettatore, producono suoni che potrebbero ad alcuni sembrare dei lamenti, ad altri degli inviti alla meditazione. Siamo, di fatto, invitati ad ascoltarle e ascoltarci. Forse, pare insinuare quel suono, dovremmo stare fermi, come la donna (immobile in mezzo ad una folla frenetica) nelle performance di Kimsooja, e ascoltare tutte le emozioni che si agitano intorno a noi. Oppure quella donna potrebbe rappresentare l’immagine stessa, l’icona, che aspetta pazientemente che qualcuno, interrompendo la sua frenetica attività, si fermi, l’ascolti e la comprenda.

S.M.