In occasione della 60° edizione della Biennale d’Arte, la Fundacion Almine y Bernard Ruiz-Picasso ha partecipato alla costellazione di eventi collaterali con la personalissima mostra “Ewa Juszkiewicz: Locks With Leaves And Swelling Buds”. Nella sede espositiva che si affaccia sulle Zattere sono dunque offerte gratuitamente al pubblico una serie di opere dell’artista surrealista polacca, evidenziando quelli che sono il suo percorso e la sua concezione della pittura, in particolare del ritratto.
Fin dall’antichità il ritratto ha avuto una duplice funzione. Se da una parte serviva a mantenere vivo il ricordo (visivo) della persona effigiata, per fare sì che, anche dopo la morte, non se ne dimenticasse l’aspetto, dall’altra è sempre stato accompagnato da una funzione sociale. Di fatto, gli attributi che affiancano molti ritratti sottolineano spesso quella che è la condizione sociale della persona (solitamente e auspicabilmente per lei, elevata).
Ewa Juszkiewicz, conscia di ciò, per tutta la sua carriera ha tentato di comprendere come il ritratto, da sempre legato a questi due fattori (memoria e società), potesse essere riletto e attualizzato per esprimere qualcosa di nuovo. Riprendendo ritratti di donne di artisti europei del XVIII e XIX secolo, l’artista ha nel tempo esplorato quali fossero i confini di questo genere, e come questo, per superarli, potesse essere deformato.
Il risultato di queste sperimentazioni è qui offerto allo spettatore: le opere, che, con i loro colori decisi e sgargianti risaltano sui muri bianchi, sono ritratti di donne che potrebbero apparire classici e tradizionali, se non fosse che i loro volti sono completamente coperti. Elaborate capigliature, tessuti intrecciati, foglie e frutti, coprono totalmente il viso delle effigiate, impedendo qualsiasi possibilità di scorgere un volto.
È chiaro che, impedendo ogni lettura dei tratti facciali, viene meno la prima funzione del ritratto, ovvero quella di ricordo e memoria della persona. Ma non solo. Nella maggior parte dei casi, infatti, i colori dei vestiti di queste donne riprendono in maniera netta i colori dei tessuti che ne avvolgono i volti. È come se i loro vestiti, che sono frutto di convenzioni sociali, si estendessero al volto come dei dannosi rampicanti, annullando completamente la persona (e la sua personalità), che viene quindi soppressa da qualcosa di esterno, obbligato, e non suo.
Questa, per Ewa Juszkiewicz, è la condizione della donna sotto il patriarcato, che la annulla come persona ed enfatizza come cosa. Non a caso, nelle opere dove i volti sono coperti da elementi naturali, vediamo che man mano, con il susseguirsi dei dipinti, la natura prende sempre di più il sopravvento fino a monopolizzare l’intera opera: dove prima era centrale la persona, ora questa si vede appena.
Natura morta e ritratto si confondono nelle opere di Ewa Juszkiewicz, superando una storica e radicata distinzione tra generi pittorici, in uno spazio espositivo che, con il suo cortile interno, mescola egli stesso natura e artificio.
Effettivamente potremmo dire che tutto il lavoro dell’artista si configura come un superamento dei confini. Partendo dal ritratto che oltrepassa i suoi storici limiti di significato, ci si sposta a un superamento della distinzione tra generi non solo pittorici: ciò che si auspica di superare l’artista è, alla fine, la distinzione tra genere maschile e femminile. La sua non è solo una denuncia, ma anche una speranza: è come se quelle donne, nascoste dietro a elaborate capigliature e composizioni, stiano finalmente trovando se stesse per riemergere in una nuova forma, libera da ogni costrizione.