Preponderante in quest’ultima, singolare opera poetica di Pasquale Ciboddo è la realtà tragica della pandemia che ha colpito l’umanità intera, causando morti, lutti, sofferenze, crisi sociali e personali. Il poeta, diversamente da molti altri nella nostra società, non vuole chiudere disinvoltamente tale capitolo, anzi ne rimarca in continuazione le conseguenze, dimostrando la sua pietas per i devastanti avvenimenti. Egli attribuisce le cause del fenomeno pandemico ad una nemesi divina e naturalistica per gli errori umani. Spiega le perdite di vite che ancora non cessano, all’interno di una visione mistico-provvidenziale, affidandosi ad un sogno iniziale premonitore delle disgrazie successive: Era segno sicuro - il titolo della raccolta - nasce da un evento onirico in cui egli, vedendo la Madonna sofferente, presagisce ciò che ci avrebbe colpiti.
A fianco di tale grande accadimento storico, che paragona alle pestilenze del passato, l’autore, attraverso motivi reiterati, costruisce liriche che toccano i temi a lui più cari: il tramonto e la rovina degli stazzi della Gallura, sua terra amatissima; la nostalgia accorata di quella civiltà in cui si viveva duramente ma serenamente; la condanna della società industriale, tecnologica, metropolitana, non a misura d’uomo; il contrasto campagna-città, dove il primo termine rappresenta la salute della vita e la simbiosi benefica con la natura, mentre il secondo racchiude solo vite tristi e alienate; l’indugiare attraverso la memoria sui ricordi del passato non più revocabile. L’autore registra la drammaticità della realtà, mentre egli conserva la speranza fiduciosa nel futuro: l’insistenza sulla presenza della morte tra di noi e sul destino morituro degli umani, costituiscono senz’altro un retaggio vetero-testamentario di biblica discendenza.
Nel libro il pensiero della pandemia assume ritmi ossessivi, coinvolgenti anche per il lettore più distaccato: alcune esemplificazioni sono necessarie per rendere comprensibile più da vicino il pathos dell’uomo Ciboddo, oltre che dell’aedo epicedico. L’incipit è costituito da una lirica che dà il titolo alla silloge, Era segno sicuro, la quale nell’epilogo ci introduce al canto funebre: «… L’umanità trema / e in silenzio muore». Si succedono altre liriche - Squarcia il cielo, E non c’è medicina, A volte pregare, E se vuole - dove i due temi fondamentali sono la punizione divina e l’invocazione a Dio e alla Madonna sotto forma di preghiera per la salvezza dell’umanità: «… I nostri nemici / profanano le Tue leggi / e Tu ci condanni con pestilenze…» (Squarcia il cielo); «…E non c’è medicina a combattere il male. / Non rimane che pregare / e in bene sperare» (E non c’è medicina); «La storia è pietrificata / nel silenzio. / Si muore di peste. /…/ Solo la Madonna, / nostra madre divina, / se invoca / il Signore suo Figlio / può salvare l’umanità…» (A volte pregare). Personalmente il poeta si sente «intimorito e solo» (Ma la gente) ed essendo disorientato sul da farsi, si dedica alla poesia, mentre la malattia imperversa: «… ci frusta ai fianchi / e ci punge con spine / conficcate negli occhi / nel cuore e nei polmoni /…/ e ci nega l’esistenza» (A mitigare il male). Le forze della natura sono scatenate contro di noi: «…Ed è pena / che tormenta anima e cuore» (Ed è pena). Il poeta teme quindi che nemmeno la scienza medica sia in grado di combattere la pandemia.
Tuttavia, oltre l’evento contingente - anche se straordinario - della pandemia, la visione esistenziale di Ciboddo non si discosta da quella emergente dai testi finora analizzati. Prendiamo la leopardiana Questa la nostra sorte, dove è possibile ipotizzare un accostamento ad alcuni versi del grande recanatese: «C’è sofferenza / nel nascere e nel morire. / L’esistenza umana / vive solo una primavera / dolce di giorno e di sera. / Segue la decadenza / col mite autunno / e poi il gelido inverno / che conduce alla morte. / Questa la nostra sorte». Il futuro dell’umanità è insidiato anche dal continuo incremento demografico, un altro rischio mortale per il nostro genere: «…L’Umanità, / come un’anima in pena, / se non rallenta / la corsa alle nascite / vedrà la fine di tutti / e di tutto il creato» (L’Umanità). La condizione umana, se ancora sopportabile nella giovinezza (simboleggiata dalla primavera), diviene un macigno enormemente pesante nella vecchiaia ed allora stanchezza, isolamento, mancanza di relazioni, di gioia, di entusiasmo e quindi di vita, trasformano le giornate in amara noia (Ed è tristezza).
La quasimodiana E si sta soli è anafora di tutti questi concetti, che il poeta siciliano aveva espresso nelle immagini sintetiche ed ermetiche di Ed è subito sera; l’autore replica con la sua denuncia dell’aridità della vita moderna: «Oggi / ognuno è isolato / in mezzo a tanta gente / che è indifferente / verso tutto e tutti. / E si sta soli sulla terra / alquanto spaesati...». In altri componimenti Ciboddo è ancora più drastico e radicale, poiché afferma che la morte è già in noi lo stesso giorno in cui si nasce e che nessuno conosce la verità sull’al di là, mistero, enigma mai svelato (Questa l’amara sorte).
Una possibile via d’uscita a tale situazione scoraggiante e deprimente, viene individuata dal poeta nell’incontro con la Natura, in modo che l’ungarettiano «…La morte / si sconta / vivendo», possa essere superato. Egli - in La vera salvezza - pone un domanda in merito: «…È forse il ritorno / alla natura abbandonata / dove sono le nostre radici / la vera ricchezza / che ci salva pure / da tale pestilenza?». Domanda chiaramente retorica, dal momento che la sua visione è sicuramente indirizzata verso un pensiero fisiocratico, e ciò è dimostrato dal suo anti-industrialismo e dall’avversione verso le metropoli moderne: per Ciboddo, come per Quesnay, la base dell’economia era, è, e dovrà restare sempre l’agricoltura. Ecco i versi testimonianze inequivocabili di ciò: «La natura reclama / i suoi diritti. / Guai a trasgredire / le proprie leggi. / L’uomo di oggi / attratto dalla vita di città / abbandona la terra di nascita / e di crescita nella natura / e si perde così / in un mondo senza valori, / pensando solo alla corsa / di ricchi tesori. / Ma la terra offesa / si vendica» (Ma la terra…). Inoltre - scrive ancora nella poesia È vita limitata - la città è una prigione di catrame e cemento, dove non si respira l’aria salubre della campagna e dove la vita è monca per mancanza del rapporto con la Natura. La sua filosofia di vita centrata sull’attaccamento alla terra lo porta a vedere raggi di sole nel buio del presente solo e proprio nel mondo naturale, il cui simbolo più dolce e benefico risiede negli avventi primaverili. Tuttavia anche la terra corre rischi mortali – se non si pone rimedio – ancora una volta per responsabilità dell’uomo inquinatore.
Ed eccoci ora a quella che possiamo considerare una vera e propria civiltà contadina a se stante, sviluppatasi sulle alture e nelle campagne della Gallura, mondo del quale Pasquale Ciboddo è rimasto innamorato. Qui troviamo solo alcune liriche - come Erano il tempio, Tempi così cari, È stata una grave sventura, Ed è danno ed è pena, Oggi il mondo, In un baleno, Ricordi di tempi e luoghi, Era una civiltà - ma in altre pubblicazioni egli tratta a lungo di ogni aspetto di quel microcosmo particolare: gli stazzi. Nel suo ricordo essi erano il tempio della natura, ora è rimasto un deserto. Evoca le stagioni della vendemmia, delle feste, dei balli, che ora può solo sognare. Sono stati abbandonati per i miraggi consumistici del Continente e così è morta una lunga tradizione. Alla ricchezza d’un tempo s’è sostituito il vuoto del presente. C’era solidarietà tra proprietari, contadini e forestieri: poi il mondo ha preso altre strade. La gente degli stazzi, con famiglie patriarcali, è scomparsa in un baleno. La conclusione sconsolata del poeta è commossa ed accorata: una civiltà ricca di vita, benessere, relazioni, affetti, lavoro, emozioni… s’è dissolta ed oggi v’è una solitudine da far paura.
Nei suoi versi sciolti Pasquale Ciboddo inserisce spesso rime varie per imprimere maggior melodia alla metrica: solo l’ultima lirica - Una vera visione - è un sonetto (14 versi, due quartine e due terzine in sequenza con rime alternate).
Enzo Concardi
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L’AUTORE
Pasquale Ciboddo è nato a Tempio Pausania (SS), in Gallura, nel 1936; già docente delle scuole elementari, è uno dei poeti sardi più noti, e ha al suo attivo numerose pubblicazioni poetiche e di narrativa con prefazioni e introduzioni di prestigiosi critici.