Ho avuto l’onore di cimentarmi con due sillogi di Pasquale Ciboddo, uno dei poeti sardi più noti, Andar via (di cui ho scritto la prefazione) ed Era segno sicuro (a cui ho dedicato una recensione) e la trilogia incredibilmente si compie con questa raccolta di liriche, che rappresenta, senz’ombra di dubbio, il proseguo degli altri due testi. Si tratta di una magnifica narrazione in versi, che ha come sfondo la Sardegna, che non può considerarsi solo un luogo fisico, ma soprattutto un evento e un modo di essere, una terra di gente rimasta appartata, dotata della facoltà primitiva di mescolare la realtà alla leggenda e al sogno. Il nostro Autore, pur intessuto in ogni fibra della sua isola, non tende ad allontanarsi, rivela un forte bisogno di schiettezza, di giustizia e di libertà.
Nel libro la vicenda della pandemia continua, probabilmente il Poeta ha iniziato a scrivere mentre il terribile virus imperversava dandoci la prova che la vita può cambiare in fretta, in un istante. Nel bel mezzo dell’esistenza ci troviamo nella morte. «Siamo sospesi / tra cielo e terra / e tra spazio e tempo / senza via di fuga. / Non rimane, pertanto, / che pregare Iddio / di porre fine almeno alla Pandemia. / Sarebbe una grazia / e una allegra via» (Tempo sospeso). L’avverbio ‘almeno’ segna la differenza, Ciboddo patisce anche lo strazio della guerra scoppiata in seguito all’invasione russa dell’Ucraina nel febbraio 2022, e recita: «…La gente muore a catena / e il mondo rotola nell’abisso / di una micidiale guerra» (E il mondo).Un conflitto che ha riportato indietro la nostra storia verso epoche che credevamo aver lasciato alle spalle. E il conflitto, vicino geograficamente, non deve permetterci di dimenticare le guerre che si svolgono in altre zone del mondo, come nello Yemen, in Siria, in Etiopia… Non si può che dire con Martin Luther King Jr. «Le guerre sono pessimi scalpelli per scolpire un domani di pace».
Il nostro straordinario Autore continua in questa silloge a evidenziare l’equazione Uomo - Natura e a dimostrare quanto nel creato gli unici elementi imperfetti siamo noi uomini. Dio ci volle così, è vero, ma aggiunse ‘a sua immagine e somiglianza’ ed è avvenuto nei secoli un tradimento verso questo assunto, non siamo noi a doverci battere contro una natura matrigna, ma è quest’ultima, indifesa, a essere vittima dell’umanità. «…L’abbandono della natura, / una volta madre prolifica, / ha portato alla desertificazione. / Ora “arano” / col muso soltanto i cinghiali / e il suolo è pieno d’inciampi…» (Ora arano). Questi versi forti, aspri, selvaggi, mettono in luce quanto noi uomini temiamo la quiete e ci rifugiamo come greggi di pecore nelle città, mi si perdoni l’immagine che sa di paradosso. Dovremmo riuscire a pensare che non abbiamo ereditato il mondo dai nostri padri, ma lo abbiamo ricevuto in prestito dai figli e a loro dobbiamo restituirlo migliore di come lo abbiamo trovato. La lirica che dà il titolo alla raccolta è il sunto incandescente del pensiero del Poeta. «La guerra mondiale / era finita da poco. / Si seminava il grano / con la speranza / di una buona annata / per ricavare il fabbisogno / della sussistenza vitale /…/ e il mondo pian piano si riprese. / Ora c’è di nuovo / minaccia di guerra totale. / In Oriente / si lotta già con armi sofisticate. / C’è morte e paura / e si spera, però, / che le armi tacciano / subito e per sempre» (Con la speranza). Il testo sembra nichilista, ma dal vaso di Pandora si levano improvvisi inni alla Speranza, la piuma soffice posata su infiniti cuori. E la narrazione in versi di cui parlavo all’inizio si concretizza in tutta la sua chiarezza. Lo stile è fluido, immediato, sanguigno, evita le figure retoriche, scrive con insospettata musicalità e con la potenza evocativa di una terra ancora pervasa da umori virginali.
Ciboddo viaggia sul territorio della memoria per comprendere che la lezione più importante che la storia ci insegna è che non siamo in grado di imparare nulla da essa. Continuiamo a lasciarci militarizzare i cuori, le menti dai media. La pace non può fiorire se l’indifferenza e l’ignoranza sono nostre padrone. «Oggi Satana domina / il mondo intero. / Lucifero, dopo duemila anni / di prigione voluta da Dio / è libero e vaga sulla Terra / seminando il Male…» (È libero). Siamo in balia di troppi venti: pandemia, guerre, cambiamenti climatici, desertificazione delle zone rurali, e sembra che tra la mano del Signore e quella di Lucifero abbiamo finito per stringere la seconda. Ma lo sconforto, tangibile, pulsante nel racconto in versi, ha i suoi riscatti mistici e travolge con immagini, che possono essere soltanto miracoli del Dio dell’amore. «Natura piena / di sorprese colorate! / All’alba il sole innesca / un’esplosione di colori. / La foresta brulica di vita. / I raggi della Stella / portano luci / di arcobaleni. / L’ape vola sui fiori / li impollina e ne ricava / una dolcezza infinita / per la nostra vita» (Portano luci).
I toni del Poeta, in questa silloge, sono spesso dimessi, malinconici, si potrebbero forse definire crepuscolari, specchi dell’umana fragilità filtrata da un’anima di seta, che nel suo percorso narrativo ben delineato assume una sacralità innegabile, quella di un messaggio che abbraccia lo scibile del vissuto e del vivibile. E attraverso le liriche di Ciboddo si scopre, una volta di più, che la poesia rivela qualcosa che già esisteva prima di noi. Per questo è spesso legata al ritorno, come insegnano Leopardi, Pavese. La guerra, ossessione del Poeta, dimostra quanto nel ritorno si attui la nostra attesa più urgente: sapere cosa ci è veramente accaduto, perché torna a succedere. Ascoltare questa rivelazione diviene il compito e, nello stesso tempo, il fondamento della parola poetica di coloro che non si chiudono nelle famose torri d’avorio, ma scendono nelle strade per aprirsi ai problemi della società, della storia e della cronaca.
Splendida la lirica Per continuare, che illumina su uno spaccato del nostro tempo. Il periodo del Covid e quello successivo secondo le statistiche hanno avuto un impatto negativo sulla natalità, ma non sempre le indagini demoscopiche sono affidabili. Di fatto i bimbi nati negli anni del Coronavirus sono stati tanti e sembrava una realtà ossimorica rispetto ai rischi che si correvano e alle aspettative che si offrivano ai nuovi nati. La vita sa sorprendere e i giovani sanno credere: «La frenesia d’amore / prende anche i più giovani. / Sfoghi di sesso, / prima come adesso, / producono figli / per continuare / a perpetuare la vita…» (Per continuare).
Pasquale Ciboddo dimostra nelle sue liriche quanto spesso un cuore possa rompersi e al tempo stesso acquisire valore, dignità e attaccamento alla vita. «…Il laccio del male ci stringe / e i malvagi ci tendono tranelli. / Meditare e pregare / ci salva da tutti i pericoli» (Accerchiati dal male). La poesia, ispirata alla lettera apostolica “Salvifici doloris” di Papa Giovanni Paolo II, si addentra nel cuore della rivelazione cristiana per offrire l’esperienza della sofferenza come possibilità di un più grande amore. D’altronde non v’è dubbio che il dolore sia il gran maestro degli uomini. Sotto il suo soffio si sviluppano le anime. Il Poeta lascia intendere che soffrire equivalga ad avere un segreto in comune con Dio. La fede vacilla di fronte allo strazio che ci circonda, ma a illuminare in modo determinante sul significato del male resta la Croce di Gesù. E insieme alla Croce la Resurrezione. La sua Croce ci indica che la sofferenza può essere la via della distruzione del peccato, infatti attraverso essa Dio ha purificato i mali del mondo.
Il Poeta intarsia il suo viaggio di versi lontanissimi dal crepuscolarismo, dalla rabbia, dal sangue, versi incastonati come diamanti nel cuore indurito della vita. «È la pioggia sui prati / l’acqua su aride terre / la Primavera. / Stagione che si gode / da mattina a sera. / Vera arte sublime / donata al mondo / dalla Bontà Divina» (Vera arte). La nostra esistenza è un filo di seta sospeso in un gioco di rasoi, ma come il giunco resiste al maestrale più degli alberi secolari, così il filo di seta sa dimostrarsi più forte dei ‘lacci del male’.
La Natura, nella poetica di Ciboddo è rivelazione di Dio; forma di Arte perfetta, cosicché neanche un fiocco di neve sfugge alla sua mano modellatrice. Ogni ramo, ogni fiore, ogni foglia, ogni onda sembrano contenere una biblioteca dedicata alla meraviglia, al silenzio, alla bontà. Il Poeta indugia sulla memoria e ferma una pagina per raccontarsi: «Anche io da giovane / ho arato la terra, seminato / e mietuto con la falce / sotto il solleone d’Estate /per produrre il pane / di sussistenza vitale / durante l’ultima disastrosa / Guerra Mondiale. / Poi ho studiato / e scritto storie vere / della Gallura / poesie in gallurese / e in lingua italiana. / Scritti piaciuti / a tanta varia gente / e a dotti studiosi» (Scritti). La fatica nei campi, il secondo conflitto, gli studi, le poesie nella lingua sardo - gallurese, un sardo settentrionale con affinità a Sassari, Stintino, e con minoranze a Perfugas. Un dialetto che non manca di testi scritti già nel Medioevo con bassorilievi e anche nel settecento con componimenti poetici. Nella lirica Scritti il Nostro sembra mettere a fuoco i momenti cardine della sua esistenza. Dopo le sofferenze del secondo conflitto mondiale ha studiato e amato la scrittura e si potrebbe affermare, senza timore di sbagliare, che l’arte del comporre si è innamorata di lui. Ha prodotto opere nella lingua madre e in italiano ed è stato apprezzato da tanti, persone comuni e ‘dotti studiosi’.
La storia di Ciboddo dimostra che si sono interessati alle sue Opere autorevoli critici contemporanei, da Enzo Concardi a Ninnj Di Stefano Busà, a Raffaele Piazza, Elio Andriuoli, Giorgio Bárberi Squarotti, e molti altri. Di fatto il Poeta oltre a donarci poemetti, narrazioni in versi o componimenti che dir si voglia, è stato un insegnante e non ha mai trascurato la sua terra. Tuttora attinge la filosofia del vivere alla scuola della campagna gallurese e ne piange il destino con una pietas che scuote le fronde dell’anima: «…Siccità e caldo estremo / bruciano anche / l’anima della terra. / Siamo proprio dentro una serra. / Noi mortali impietriti / stiamo zitti a guardare. / E fame e miseria / attanagliano l’umana esistenza» (E fame e miseria).
Sicuramente Ciboddo coltiva nel suo dire diretto, privo di sperimentalismi, una filosofia del dolore e di ciò che, per grazia divina, passa. Uno stare dentro la vita nell’immanenza tra il Bene e il Male. Un trascorrere sospeso. Come ogni forma di Arte l’amore per la natura è un linguaggio comune che può trascendere i confini politici o sociali. Il discorso ecologico in questo contesto diviene dominante. Nella lirica appena citata l’Autore fa riferimento all’effetto serra e la principale causa che turba l’equilibrio dei gas serra in atmosfera sono le azioni degli esseri umani. Un altro fattore che turba gli equilibri è la deforestazione: la scomparsa delle foreste e delle piante, causata sia dall’agricoltura che dall’urbanizzazione, che ha ridotto la capacità degli alberi di assorbire l’anidride carbonica. Si sta verificando così la modificazione del clima terrestre sulla quale il Poeta insiste con dolente passione. «La vita è una catena / di ferro con più anelli / che per un tempo dura. / Ma se non si cura / la ruggine l’attacca / e qualche anello si stacca…» (Così la vita). Ho la sensazione che quest’ultimo sia uno dei pochissimi componimenti, se non il solo, nel quale il caro Pasquale Ciboddo indugia in una metafora. La vita dura se la si rispetta, se le si prestano le cure che destiniamo anche solo alle biciclette per evitare che l’indifferenza, ruggine dell’anima, la corroda. Ritengo la lettura di questo Artista paragonabile a un’esperienza catartica. Possiede la forza salvifica di riportarci a ragionare da esseri umani, desiderosi di proteggere la nostra dignità e il nostro slancio verso il prossimo e verso il creato. Dimostra che il lirismo non è quello che troppi vogliono far credere, può avere i denti e mordere, ma tramite le ferite destare dal sonno. Quando il potere ci spinge verso l’arroganza, la poesia ci ricorda i nostri limiti. Quando la miseria interiore restringe la sfera dei nostri interessi, i versi ci ricordano la ricchezza e la diversità dell’esistenza. Quando i rapporti corrompono, la poesia rigenera. In passato il lirismo era al centro della società, con la modernità si è ritirato ai suoi margini. Credo che un percorso in versi come quello del Poeta gallurese dimostri quanto l’esilio della poesia possa coincidere con l’esilio dei nostri sentimenti migliori.
Maria Rizzi