Il nono film di Quentin Tarantino è un meraviglioso atto d’amore per il cinema, ma manca dei ritmi serrati e dei colpi di scena che hanno caratterizzato le sue migliori pellicole, per cui sembra essere stato concepito più per i cinefili accaniti che per il grande pubblico. Forse il regista si è perso nella cura maniacale dei dettagli e ha perso la visione d’insieme della pellicola, realizzando un prodotto che magari ha deluso qualche aspettativa.
È però bello perdersi in questo film metacinematografico, anche se nelle prime due ore è difficile riconoscere una struttura narrativa, per lo meno nell’accezione di Campbell e Vogler. Sullo schermo infatti scorrono molto lentamente due storie parallele, dominate dai dialoghi, nelle quali gli eventi si susseguono in maniera apparentemente casuale. I due racconti si fonderanno in un finale pulp in perfetto stile tarantiniano, ridando energia alla narrazione con un colpo di reni improvviso.
I due protagonisti sono Rick Dalton, attore ormai in declino, interpretato da Leonardo di Caprio, e lo stuntmen Cliff Booth, controfigura e uomo tuttofare di Dalton, interpretato da un convincente Brad Pitt. Dopo avere raggiunto il successo come protagonista di una serie TV western, per sbarcare il lunario Dalton accetta dei ruoli secondari, e alla fine si sposta in Italia per girare dei B movies, sperando in tal modo di ridare brio alla sua declinante carriera, prima di ritornare a Hollywood, con una nuova moglie. Ma nonostante gli sforzi profusi, il suo futuro professionale rimane incerto. Il fido Booth è sempre al suo seguito, e i due formano una coppia molto particolare, formata da due personalità diametralmente opposte. Dalton vive in una villa sontuosa, ma è in crisi profonda, non solo professionale ma anche umana, tanto che si rifugia nell’alcol. Booth vive invece in una roulotte con Brandy, la sua fedele Pitbull terrier, ma è mentalmente solido come una roccia, tanto che sarà lui, nel gran finale, a salvare una situazione che sembrava essere senza speranza.
Parallelamente il film ci mostra la vita dorata di Sharon Tate, intrepretata da Margot Robbie, e di suo marito Roman Polansky, che al contrario dei due protagonisti sono all’apice del loro successo, e sono vicini di casa di Dalton.
Le due storie forniscono due punti di vista differenti dai quali osservare lo spietato mondo di Hollywood, che costruisce e distrugge carriere molto velocemente. Tarantino si diverte a mescolare continuamente finzione e realtà, regalando al cinefilo appassionato un mare di citazioni, nel quale è facile perdersi, anche perché nella storia vengono nominati anche film mai realizzati, come nel caso delle pellicole girate da Dalton in Italia.
Nel finale Tarantino si diverte a modificare quanto accaduto nella realtà storica, operazione a cui ci ha già abituato con Bastardi senza gloria, nel quale Hitler viene ucciso, e in Django Unchained, nel quale lo schiavismo razzista nordamericano dell’Ottocento viene sconfitto. In C’era una volta… a Hollywood il regista risparmia invece Sharon Tate e i suoi amici, che il 9 agosto 1969 vennero uccisi nella loro villa di Los Angeles dai seguaci della setta di Charles Manson. Un terribile fatto di sangue che impressionò l’America del tempo e che alcuni considerano come la cesura che ha chiuso i solari anni Sessanta. Questa scelta può essere letta come un gesto di amore di Tarantino, per quella che per lui è probabilmente un’Età dell’Oro del cinema, che lui ha voluto mantenere in vita, almeno nella finzione cinematografica. Il fatto che originariamente il film sarebbe dovuto uscire il 9 agosto 2019, nel cinquantesimo anniversario dell’efferato eccidio, la dice lunga sull’importanza che questo avvenimento ha per Tarantino.
C’era una volta… a Hollywood prende le distanze dal politically correct attualmente dominate nel panorama mediatico, sotto diversi punti vista.
Booth, che forse è il personaggio più convincente e meglio tratteggiato, è sospettato di avere ammazzato la propria moglie e di averla fatta franca. Respinge senza problemi le avances di una hippie e di certo non si fa scrupolo di usare le maniere forti contro il gentil sesso, quando la situazione lo richiede. Sharon Tate viene rappresentato come una belloccia che si gode il suo momento di gloria a Hollywood, suggerendo neanche tanto velatamente che viva alle spalle del marito. La piacente moglie italiana di Dalton non eccelle certo per le sue doti intellettuali. Per farla breve, Tarantino in questa pellicola non sembra farsi molti problemi a esporre il fianco a quanti lo accusano di misoginia.
Discorso analogo può essere fatto per la questione razziale. Tarantino si diverte a massacrare una delle icone di Hollywood, Bruce Lee, che viene dipinto come un povero smargiasso che viene messo in riga senza tanti problemi da uno strafottente Cliff Booth, che lo stampa senza sforzo sulla fiancata di un’automobile, ridicolizzandolo. Ancora più significativo è il momento in cui il granitico Booth ricorda a Dalton, colto in un momento di debolezza, che “non puoi piangere così davanti ai messicani”, per non parlare della ritrosia di quest’ultimo ad accettare delle parti da protagonista nei western spaghetti italiani, nei confronti dei quali palesa un evidente disprezzo culturale.
Va detto che queste scelte, che hanno fatto arricciare il naso ad alcuni benpensanti, funzionano molto bene nella rappresentazione cinematografica, fornendo coerenza ai personaggi. Del resto nel mondo di oggi è veramente difficile non urtare la suscettibilità di qualcuno, e rimanere nel perimetro del politically correct rende molto difficile esprimere un pensiero creativo. Basti pensare che la PETA, associazione senza scopo di lucro che si batte per i diritti degli animali, ha pesantemente criticato la scelta di utilizzare un Pitbull nel suo film. Secondo questa associazione Tarantino dovrebbe vergognarsi per il semplice fatto di avere messo in scena questa discussa razza canina, con la colpa aggiuntiva che l'animale ha le orecchie tagliate, come imposto dalla moda del momento.
Un punto di forza di questo film è senz’altro la colonna sonora, composta da brani del periodo storico rappresentato nel film. Una vera parata di mostri sacri della musica, come i Rolling Stones, Aretha Franklin, Deep Purple, Joe Cocker, The Mamas & The Papas, The Blues Brothers, The Beatles, Black Sabath, solo per citarne alcuni.
In definitiva si tratta di un film apprezzabile per il grande pubblico e di una piccola perla per i cinefili, con un cast eccezionale, che trasuda l’inconfondibile stile di Tarantino, ma forse non raggiunge le vette che il regista aveva raggiunto con le prime pellicole.