Immediato dopoguerra a Roma. Delia (Paola Cortellesi) si sveglia, e come buongiorno riceve un sonoro schiaffone da suo marito Ivano (Valerio Mastrandrea).
Comincia così la routine giornaliera della protagonista, che si divide tra la violenza quotidiana del consorte e del suocero Ottorino (Giorgio Colangeli), diversi lavori in nero sottopagati per fare quadrare il magro bilancio familiare, l’organizzazione del matrimonio della giovane figlia e i doveri domestici legati alla prole maschile, ancora imberbe ma altamente maleducata e chiassosa.
Uniche luci a rischiarare un esistenza triste e sottomessa sono l’amicizia con Marisa (Emanuela Fanelli) e il tenero rapporto platonico con Giulio (Francesco Centorame), meccanico e suo ex-spasimante di gioventù, in procinto di partire alla ricerca di fortuna nel ricco Nord Italia.
C’è ancora domani: un buon esordio alla regia
La storia ruota attorno alle vicende umane della protagonista, che porta avanti la sua vita con grande dignità e spirito di sacrificio, sempre pensando agli altri, nonostante le oggettive difficoltà legate alla disastrosa situazione economica italiana del primo dopoguerra, e la società profondamente maschilista e patriarcale nella quale si muove.
Un film che tratta temi scottanti, come la violenza domestica quotidianamente sopportata da Delia, rassegnata a pestaggi quasi giornalieri, che il consorte le infligge dopo avere ipocritamente chiuso le finestre dello scantinato dove vivono, per non scandalizzare il vicinato, che ovviamente sa e tace.
Tuttavia la violenza non viene quasi mai mostrata esplicitamente, ma è sublimata con artifici visivi che trasformano lo scontro fisico tra i consorti in un ballo, confinando questi episodi in una dimensione quasi fiabesca, grazie anche al piacevole bianco e nero utilizzato per girare tutta la pellicola, che dà un tocco neorealista al tutto.
Il film scorre piacevolmente, indugiando sulla rozza tracotanza della maggior parte dell’universo maschile del tempo, mentre il titolo allude al voto femminile che viene introdotto in Italia nel 1945, e che segna un vero spartiacque per l’indipendenza delle donne.
Una pellicola che utilizza apprezzabili artifici narrativi, il cui unico difetto è qualche smagliatura poco verosimile, come in particolare l’intervento del militare americano di colore, che salva la figlia di Delia dal matrimonio programmato con un giovanotto arricchito ma arrogante, utilizzando metodi poco ortodossi (e poco credibili).
Ma vista la dimensione tutto sommato fiabesca del racconto, per altri aspetti curato nei minimi dettagli, sono imperfezioni si cui si può tranquillamente glissare.
Molto bravi tutti gli attori, che rendono credibili i loro personaggi. Valerio Mastrandrea ha avuto l’onere di personificare un personaggio veramente fastidioso, prototipo del maschio aggressivo e parassitario, sempre pronto a giustificare il proprio comportamento inqualificabile.
Molto bravo anche Giorgio Colangeli, che dà vita al vecchio patriarca bavoso e mantenuto, nonostante tutto stoicamente accudito da Dalia, che mette sé stessa sempre dopo gli altri, per tenere unita una famiglia altrimenti destinata all’implosione.
E tanto di cappello a Paola Cortellesi, il cui personaggio è capace di sopportare l’insopportabile, senza però perdere mai la speranza in un mondo migliore, diviso tra la possibilità di avere una relazione soddisfacene con un altro uomo e l’opportunità di manifestare il proprio pensiero politico in una società che considerava la donna come un essere inferiore.
E il racconto gioca con questi due piani, lasciando lo spettatore libero di fantasticare su quello che Dalia vuole fare della sua vita, svelando le scelte della protagonista solo nel catartico finale.
Un film che è un buon esordio alla regia. Da vedere. Al cinema.